Il mio modestissimo parere è che
Jon Oliva rappresenta per il metal ciò che Roberto Baggio ha rappresentato per il calcio e Giotto per l’arte: un autentico fuoriclasse, di quelli che ne nasce uno ogni cento anni.
Se contiamo
Savatage e
Jon Oliva’s Pain, quest’uomo ha mai commesso passi falsi? Secondo me no. È vero, alcuni dischi sono meglio di altri, come è normale che sia, ma io non sono mai riuscito a trovarne uno che vorrei fuori dalla mia discografia personale: anche questa volta, dovrò fare spazio a un nuovo lavoro del caro Jon.
Festival ha il gravoso compito di succedere a un disco monumentale come
Global Warning e io voglio essere più che chiaro fin da subito: questo è un album diverso, meno diretto, ma assolutamente non inferiore. La differenza fondamentale è che
Festival fa più male proprio dove è necessario, perché trasuda heavy metal da tutti i pori, con poche e centellinate soste. Certo, le caratteristiche dei lavori di Oliva ci sono tutte e compaiono anche più di una volta all’interno del disco: cori pomposi, melodie affascinanti, inserti acustici, strizzate d’occhio al progressive, momenti rilassati e splendidi assoli di chitarra. La cosa che più lascia soddisfatti è però il riffing aggressivo e saltellante che accompagna praticamente tutto l’album e che premia gli ascoltatori più legati a un modo antico e ormai quasi perduto di suonare metal.
La band ci regala dieci piccole perle, dove forse l’unico episodio che non convince a fondo è proprio la title-track. Si passa dall’incedere deciso di
Lies all’epica
Death Rides A Black Horse, dall’incredibile e colorata
Afterglow (il cui minuto e mezzo finale è da antologia della musica) alla cattiva
Living On The Edge. Il primo rallentamento deciso è rappresentato da
Looking For Nothing, ballad acustica con chiare sfumature che richiamano il rock d’autore statunitense, mentre con la successiva
The Evil Within il combo torna a puntare deciso su sonorità più cattive. La splendida
Winter Haven rappresenta a mio parere il capitolo più
Savatage-oriented del disco ed è seguita da un altro pezzo dove si picchia duro, ma sempre con uno stile inconfondibile, come
I Fear You. La premiata ditta pianoforte & voce si fa attendere, ma arriva sulla conclusiva
Now, arricchita da archi e chitarre che si rincorrono con inserti semplici ma efficaci: delicata e intima, non può fare a meno di regalare un brivido agli ascoltatori più sensibili alla vena poetica della band.
Se amate l’heavy metal, ma soprattutto se amate la musica di classe, questo è un disco da avere a tutti i costi. Da parte mia, non posso fare altro che concedere un nove pieno e commosso. Forse esagero, ma di dischi così, col passare degli anni, se ne sentono sempre meno. Per questo, quando ne trovo uno, non posso fare a meno di macinare ascolti fino allo sfinimento. Forse questo album non entrerà nella storia, ma rappresenta l’ennesimo capitolo di una storia d’amore infinita tra Jon Oliva e il suo pubblico, ultimo tassello, in ordine temporale, della vera e propria enciclopedia del metal rappresentata dalla discografia del Mountain King.