Le ragioni che possono spingere a scrivere possono davvero essere tante.
Intendiamoci, stiamo parlando dell’ispirazione che può transitare qui in basso, dalle parti di noi comuni mortali, mica dell’impulso di un vero scrittore. Tuttavia, ognuno conosce i propri demoni e le proprie motivazioni e io oggi sono qui a percorrere strade contorte di ricordi del passato e di tensioni del futuro prossimo, che miste al cielo plumbeo (vera sorpresa di oggi, in questi giorni di caldo bestiale) si sublimano in un unico, oscuro pensiero: i
Black Sabbath.
Su queste pagine mi sono sovente speso in lodi e parole di ammirazione incondizionata per la leggenda Led Zeppelin, ma ho colpevolmente trascurato l’altra colonna che regge trabeazione e timpano del mio Tempio del Metallo, ossia proprio la band di Iommi, Butler, Ward e Osbourne, i quattro originali officianti del Sabba Nero.
Di solito, a chi mi chiede qualcosa sull’argomento, rispondo sempre il solito ritornello: i primi cinque dischi di questo gruppo sono tutti dei capolavori assoluti, indiscutibili e imprescindibili per chi voglia intraprendere un percorso di ascolto e di conoscenza del rock duro, ma che io ho sempre avuto un debole personalissimo per “Vol.4”, considerandolo di fatto il migliore dei cinque.
L’ho sempre preferito perché (a mio modesto avviso) rappresenta la definitiva formalizzazione del loro stile, ripulito da alcune imperfezioni e alcune (piccolissime) ingenuità delle produzioni precedenti, attribuibili (“forse”, e sempre “a mio modesto avviso”) ai mezzi e ai tempi molto risicati, che all’epoca erano la triste regola per la registrazione dei lavori in studio. Se per i miei timpani “Vol.4” costituisce la sintesi perfetta del linguaggio sabbathiano, “Sabbath Bloody Sabbath” è una splendida evoluzione di questa sintassi musicale codificata. Due pietre miliari questi due dischi. Volentieri avrei scritto di entrambi, lo confesso, ma su “Vol.4” ci delizierà altro Utente del sito di Metalhammer, appassionato cultore del disco e del gruppo (vai jb!): a me tocca, dunque, l’onere e l’onore di scrivere qualcosa di sensato su “Sabbath Bloody Sabbath”, capolavoro pubblicato per la Vertigo alla fine del 1973.
Il vinile fa bella mostra di sé fra i miei scaffali grazie ad un fantastico artwork, curato magistralmente dall’illustratore Drew Struzan. Il pittore sceglie un tema impegnativo quanto singolare (trattandosi pur sempre della copertina di un disco), ossia rappresentare la morte in due momenti ugualmente tragici, ma diametralmente opposti: il trapasso dell’uomo buono e quello del dannato. La front cover è dominata da rossi infuocati e da figure demoniache, che tormentano sul letto di morte l’impotente vittima (il malvagio) strangolata da un serpente e assaltata da ratti, con l’inequivocabile “666” a dominare sinistro sulla testata del talamo infernale. L’illustrazione del retro copertina, invece, fotografa il gelo di una morte compassionevole, forte di mille sfumature di azzurro e di blu, con il soggetto centrale (il buono, appunto) circondato da personaggi afflitti in preghiera e celebrato da due figure leonine al capezzale. Spesso ammirati fin nei dettagli durante l’ascolto del disco, considero questi due dipinti un plusvalore dell’opera, che riportano la band a un progetto grafico degno del loro blasone, progetto di una qualità che non si vedeva dal disco d’esordio.
Tornando più strettamente alla musica, invece, la storia racconta che i Black Sabbath devono fronteggiare la crisi di idee di Iommi, vittima di un autentico blocco dello scrittore. Il baffuto chitarrista si è spremuto fino all’osso con quattro dischi in tre anni e tutti si aspettano da lui nuova musica spasmodicamente, alimentando, chissà, incertezze e amnesie. Tutti aspettano e sperano, ma nessun altro tira fuori una sola nota degna di essere registrata. I quattro sembrano in una posizione di stallo.
Ma i grandi, si sa, nelle difficoltà sono capaci di reinventarsi e trasformarsi. Questi quattro musicisti, da fabbri della fucina dell’hard rock più cupo, si trasformano in architetti di una musica contaminata di jazz, progressive e persino di passaggi orchestrali, aprendosi all’uso di pianoforti, tastiere e chitarre acustiche, scegliendo con convinzione un suono meno greve, più pulito e ricercato.
Alcuni possono storcere il naso. A pochi, nel mondo del rock, piace il cambiamento. Eppure “Sabbath Bloody Sabbath”, pur essendo un disco pieno di sorprese e di novità, non perde assolutamente nulla dell’identità e della caratura del gruppo. La musica è dura e melodica, ariosa quanto inquietante e claustrofobica, in una varietà di situazioni e di atmosfere apprezzabilissima. Da notare, poi (in barba alla presunta crisi compositiva di Iommi), il numero impressionante di riff, usati senza parsimonia; due, tre, quattro in un singolo brano, ciascuno per un ulteriore sviluppo della traccia, roba che altri gruppi (ammesso che ci fossero arrivati anche solo a crearli) avrebbero centellinato per anni a venire, vivendo di rendita, piuttosto che utilizzarli tutti in una sola volta.
Le canzoni, in brevissimo: la title track dell’album si distingue per il massiccio giro di chitarra iniziale, con la voce di Ozzy delirante e sgraziata al punto giusto, a cui fa da contraltare un ritornello acustico ed elegantissimo, in cui Iommi sfoggia un tocco inusuale, pulito e vagamente jazzato. Si prosegue con “A National Acrobat“. So che il parere ed il gusto personale lasciano il tempo che trovano, ma non so trattenermi dal manifestare il massimo entusiasmo per questo brano. Infinito. Passatemelo questo aggettivo, che significa tutto e niente, lo so: riff cadenzatissimo, voce teatrale, pause, effetti eco e un finale accelerato in crescendo, per una traccia musicale che potrebbe continuare a oltranza, con una variazione ogni minuto, un altro suono e ancora un altro ritmo. “Fluff” è la parentesi acustica che serve a ritrovare il respiro, poi una chitarra lontana annuncia l’inizio di “Sabbra Cadabra”. Altra gemma, altro treno in corsa al quale si sta dietro con grande difficoltà. Questo pezzo si distingue per la presenza di un ospite illustre, Rick Wakeman, formidabile virtuoso in forza agli Yes, che realizza un intermezzo di puro progressive con le sue tastiere magniloquenti e che accompagna la band con il suo pianoforte in questo rock’n’roll forsennato. “Killing Yourself to Live” è un brano in stile più canonico e riporta i Sabbath alle atmosfere del disco precedente (qualcuno sente in questa canzone i semi del grunge che verrà); in “Who Are You?”, ipnotica, lenta e misteriosa, spadroneggiano i sintetizzatori; in “Looking For Today”, aperta e piena di luce, fa capolino persino il flauto traverso. Il desiderio di sperimentare è forte e i risultati ottimi: in un tempo che sembra troppo breve le tracce si susseguono e si arriva alla conclusiva “Spiral Architect”. Il brano è costruito con grande perizia. Scrivo “costruito”, ma in realtà niente suona forzato o eccessivamente studiato a tavolino. Al contrario, arpeggio iniziale, strofe, ritornello e innesto orchestrale funzionano a meraviglia. Il sipario si chiude e parte un applauso registrato con cui il disco si conclude: ad occhi chiusi si ha come la sensazione di essere lì, a lasciare il teatro sulle note del basso e sulla batteria, che sfumano a poco a poco.
Disco fantastico “Sabbath Bloody Sabbath”, nel quale Iommi mostra con successo doti e gusti ancora inespressi nei dischi precedenti, Butler si conferma bassista unico nel suono e nell’esecuzione, Ward (lontano dallo standard hard rock di batterista - picchiatore) si esibisce con eleganza, leggerezza e varietà da grande percussionista. Mentre Ozzy si limita ad essere il pazzo di sempre, forse con qualche difficoltà nei toni molto alti che deve prendere in alcuni dei brani del disco, ma sempre perfetto nella sua interpretazione tutta istinto.
10, 9, 7 e 3/4, a questo punto davvero conta il voto? Davvero a un mito come i Black Sabbath è necessario attribuire un valore numerico? Ovvio che no. La storia parla per loro, l’influenza fortissima nei lustri a seguire, su decine e decine di band parla per loro. Ma, a scanso di equivoci, lasciatemi il gusto e l’effimero privilegio di assegnare a questi mostri sacri un 10, giusto per illudermi di essere l’ombra di una nota a piè pagina dell’enciclopedia musicale che essi rappresentano.
Maestri.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno