Immagino quale potrà essere la reazione di un imberbe
metal-head (non
superficiale) di fronte ad un disco come questo:
stupore.
Stupore per un gruppo italiano che all’inizio cantava in madrelingua e fu costretto a passare all’idioma inglese per non incorrere nella censura (alla questione avrà, poi, presumibilmente contribuito pure una certa brama di “internazionalità” …), per una registrazione complessivamente dignitosa, ma certamente, tra demo, live e sessioni vagamente più professionali, ben lontana dagli standard cui ci ha ormai abituato la tecnologia del terzo millennio.
E poi, spero ardentemente che tale
soggetto si possa anche meravigliare
positivamente per la forza e l’urgenza espressiva di un gruppo orgogliosamente italico, prima uno dei pionieri e poi uno degli alfieri più autorevoli del metallo tricolore, capace di inoculare nel prepotente virus che arrivava dalla Vecchia Albione, una sensibilità e una rabbia tipicamente autoctone.
I savonesi
Vanexa tracciano con la loro storia una sorta di paradigma di cos’era l’heavy metal dalle nostre parti agli albori degli anni ottanta: un’entità estremamente affascinante, perfetta per l’esigenza di novità, di ribellione e di espressione che animava quelli che non si riconoscevano nella poetica un po’ snob di taluni cantautori o nel trend
alternativo rappresentato da new-wave e punk.
Una “roba” abbastanza
carbonara, carente di mezzi, di strutture e di professionalità, oltre che decisamente ingenua e schietta, ricca di talento ed estro, magari anche in parte riconosciuto, ma non adeguatamente sfruttato (o messo a profitto da altri … vedasi l’emblematico caso di “Lasciami stare”, molto
apprezzato dai Saxon!) e certamente non scevra da gelosie e rivalità, spesso assurde ed apparentemente inspiegabili.
Nonostante tutte queste difficoltà (o forse, anche in virtù di queste) la musica che nasceva era di grandissima intensità o almeno lo era quella proposta dalle migliori formazioni che avevano faticosamente (essere “metallari” ai tempi era una faccenda parecchio impegnativa!) deciso di credere in questa che sembrava anche qualcosa di più di una preferenza artistica, diventando
quasi una scelta di vita.
E’ proprio questo l’aspetto maggiormente sintomatico che emerge dai solchi di “Vanexa 1979 – 1980”, ed ecco che l’approssimazione della resa sonora (soprattutto nella porzione live catturata nel ’79 a Pietra Ligure e Belluno, mentre andiamo leggermente meglio nel demo dell’80 - tutti con il microfono gestito da Fabrizio Cruciani, finito molto presto alla corte di Joe Vescovi e Steve Tessarin nella superband
underground Knife Edge - per poi migliorare sensibilmente nelle tracce cantate da Alfio Vitanza - ex Latte e Miele e collaboratore dei New Trolls - tratte da una sessione di registrazione effettuata nello Studio G di Genova nell’80), passa certamente in secondo piano di fronte all’incontenibile energia vitale e all’impetuosa freschezza di questi ragazzi che, pur nella naiveté di alcuni dei loro testi, volevano comunicare al mondo il loro pensiero, la loro inventiva, il loro disagio, la voglia di stare insieme e divertirsi, contribuendo pure alla
causa.
Citazioni specifiche non ne voglio fare, le ritengo superflue in questo contesto, ma è chiaro che già tra questi riff, tra queste cavalcate ritmiche e tra queste vibranti linee vocali, magari un po’ disordinate, c’erano le stimmate di un suono che, evolvendosi (anche tramite ulteriori variazioni di line-up, sviluppate attorno lo “zoccolo duro” Pagnacco / Bottari), sarebbe diventato quello dei dischi ufficiali in studio, quello che abbiamo poi visto riproporre con esuberante passione in una recente edizione del Play It Loud e che speriamo di poter apprezzare nuovamente quanto prima in una versione “inedita”.
Per i più giovani aficionados del genere “Vanexa 1979 – 1980” equivale ad una lezione di storia, molto preziosa perché è sempre fondamentale sapere da dove si è partiti per comprendere dove andare; per i più
attempati è un modo assai gradevole per sfogliare (molto curato, tra l’altro, il booklet) una sorta di album dei ricordi, senza intenti eccessivamente nostalgici, ma con la consapevolezza di aver vissuto un’epoca irripetibile e non per questo completamente rimpiangibile (non sono per nulla un sostenitore
tout court del “si stava meglio quando si stava peggio”!); per tutti è una bella maniera per riportare alla luce un documento importante e significativo, voluto fortemente da un’etichetta coraggiosa e appassionata, che probabilmente, almeno a livello di “fede” e convinzione è rimasta ai tempi celebrati da quest’uscita, quando cioè in certe cose si confidava fermamente e non si pensava troppo al business e alle sue regole ed opportunità.