Sarà anche vero che sarebbe meglio “non credere alle favole”, come del resto suggerisce l’ultima traccia di quest’avvincente disco, ma come chiamereste, soprattutto in un’ottica di analisi
diacronica, una situazione come questa?
Un gruppo italiano capitanato da un chitarrista e compositore pressoché “sconosciuto”, che incide per un’autorevole etichetta tedesca, sfida senza timori reverenziali i migliori eredi dei grandi dell’hard stradaiolo più selvaggio, rissoso e viscerale e appare pure degno di un accostamento diretto a tali (
cattivi) maestri, in un turbinio di suggestioni che chiamano in causa Guns ‘n ‘ Roses, Skid Row, L.A. Guns, Slash's Snakepit, Velvet Revolver, Buckcherry, Lynch Mob e Little Caesar.
E’ altresì necessario aggiungere che a fornire il proprio fattivo apporto a un risultato così gratificante negli
Skill In Veins troviamo anche personaggi maggiormente noti come Gabriele Gozzi (Markonee, Killer Klown), Nick Mazzucconi (Edge Of Forever, Moonstone Project), Francesco Jovino (UDO, Edge Of Forever, Moonstone Project), tutti coordinati dall’ormai celebre Alessandro Del Vecchio in veste di produttore (ma ricordiamo anche il suo curriculum come musicista con Edge Of Forever, Eden's Curse e Moonstone Project, tra gli altri!) e tuttavia il primo aspetto a sorprendere durante l’ascolto di quest’album è l’impressionante naturalezza, la forza espressiva e la competenza con le quali Andrea “Andream” Lanza ha scritto e suonato questi favolosi spaccati di “rock urbano”, quasi fosse una smaliziata “vecchia gloria”, piuttosto che un giovane
carneade del settore, per di più nemmeno aiutato
troppo dalle proprie origini geografiche.
E non si pensi ad una sterile e stanca riproposizione di temi ampiamente sfruttati, in “Skill in veins” c’è tutto quello che serve per fare del grande r ‘n’ r, comprese quelle doti di spontaneità ed istintività che fanno la differenza soprattutto quando si percorre la temibile linea del fuoco e del vizio già battuta con profitto da un sacco di personaggi prestigiosi, dagli Stones, ai New York Dolls, passando per gli Aerosmith ed approdando, appunto, ai campioni dello
sleaze metal citati in testa alla disamina.
La voce di Gozzi, abilmente
inasprita (come già nei K.K.) per l’occasione, ricorda le migliori performance “trasformiste” di Axl o l’irruenza giovanile di un Sebastian Bach, la chitarra di Lanza arde tra fendenti laceranti, riff serpeggianti e suggestivi solos, mentre la sezione ritmica “pesta” con energia e convinzione, evitando di fare il semplice “compitino” e collaborando con vitale creatività ad un effetto complessivo assai soddisfacente.
Incisività, urgenza e idee non abbandonano mai i cinquanta minuti di durata del Cd, e se l’impatto terrificante di “Can’t ride my soul”, “Skulls on the way” (con qualcosa dei Megadeth nell’impasto!) e “Youth times” (un’arcana out-take di “Appetite for destruction”?) lascia praticamente senza fiato, si riesce a recuperare dalla repentina
apnea grazie al mid-tempo “I’m living my life”, pregno di pathos e di virile vigore, impreziosito da effluvi di Firehouse e da un guitar-work ancora una volta piuttosto Slash-esque.
Con “Sick mind” riprende il martellamento e, anzi, il suo gusto vagamente “attualizzato” ed oscuro ci ricorda che siamo nel terzo millennio e non negli anni ottanta, sgomberando il campo di ogni eventuale dubbio sulle intenzioni dei nostri, una band che celebra un certo tipo di suono, rivitalizzandolo e senza svilirsi in un approccio passivo o eccessivamente nostalgico.
Il funky-rock duro e sinuoso di “You’re doing it again” prepara l’ascoltatore a una “Just one drink”, dove viene riesumata addirittura l’incontenibile e torrida magnificenza dei Badlands (e se non è un complimento questo!) e del southern rock blues, mentre “Don’t need you to cry” esplora il lato maggiormente romantico del gruppo, confermando classe e dovizia nell’organizzare una linea melodica decisamente vincente.
C’è ancora spazio per il basso rotolante e l’andamento
licenzioso di “The way out”, per la scalciante “We don’t cry” e per la già menzionata “We don’t believe in fables”, un pezzo piuttosto
ambizioso che, con i suoi diversi umori, tra bagliori esotici, pulsazioni ipnotiche e la consueta incontenibile espressività, dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che gli Skill In Veins sono tra noi per contribuire alla “causa” del rock e non per ingrossare le fila dei tanti emulatori allettati dal ritorno in auge di certe sonorità.
Per concludere manca ancora una risposta alla domanda evocata nelle prime righe di questa recensione … io, a dispetto di tutto, questa la chiamerei una
bella (“bella e dannata” si potrebbe anche dire per rendere omaggio ad un
certo immaginario …)
storia, che è diventata una splendida
realtà … l’augurio è che possa essere anche
solida e riproporsi con continuità pure in futuro.