Caspita quanto adoro questo “lavoro”.
Anche quando non sono particolarmente bendisposto nei confronti di un disco e di un gruppo, può riservare grandi sorprese.
La ragione di questa mancata “propensione” è probabilmente più legata alla mia (fiera) appartenenza alla “vecchia guardia” che non a questioni specifiche … insomma come si fa ad essere invogliati all’ascolto e alla stesura della relativa recensione da un promo senza copertina, contenuto in un’anonima bustina trasparente, senza la benché minima traccia di una nota biografica (e nel caso in cui si fossero smarrite durante le
fasi redazionali di consegna, mi scuso immediatamente dell'ingiustificata
reprimenda)?
Lo so, siamo nell’era della tecnologia, della rete, dei myspace, dei social network ecc. ecc., ma credo che per una band emergente un minimo di supporto
divulgativo di tipo cartaceo sia comunque funzionale e molto utile, anche in questa nostra Società dell’informazione
esuberante e
incontrollata. Mentre mi rendo conto di essere stato
comunque fortunato (almeno è un tangibile pezzo di policarbonato e alluminio, e non un insieme di freddi file audio compressi con chissà quale “strano” algoritmo!) e di essere
vittima di una contraddizione di base (la stessa webzine attraverso cui esprimo con tanto godimento la mia passione per la musica è una
gloriosa figlia di quei tempi che, per certi versi, faccio fatica a
digerire completamente!), arrivo, finalmente, all’oggetto istigatore di questa lunga introduzione: i
Full di San Miniato e il loro Ep “Stain on my dress”.
E’ sufficiente un’audizione del dischetto dei toscani a far scomparire ogni dubbio o benevola
paternale, ogni eventuale sterile disquisizione sociale, arrivando persino a biasimarsi per aver aspettato così tanto, e per
futili motivi, a sottoporsi a tale gratificante sessione.
E’ il potere della musica e del talento, e in questo caso sarebbe meglio dire che si tratta, innanzi tutto, della forza dominante della voce umana, la quale, splendidamente modulata come avviene nella laringe di Daila Nigrelli, rappresenta ancora un incredibile e
concreto mezzo espressivo, anche quando tutto intorno sembra diventato
virtuale: i rapporti, i sentimenti, a volte la vita stessa.
Immaginate una P.J. Harvey, aggiungete un pizzico di Bjork e ammantatele di atavico calore soul e avrete solamente un’idea vaga di cosa è capace la Nigrelli, abilissima, con l’ovvio contributo degli altri membri dei Full, nell’entrare in contatto con la vostra anima per mezzo di un rock alternativo malinconico, vibrante e liquido che sembra evocare momenti che rotolano e fuggono, opportunità viste e perse, tensioni e fragilità, in una
pienezza emotiva difficilmente rintracciabile in una band agli inizi della sua carriera ufficiale.
Il graffio
disturbato di “My lungs” (un po’ a-la Queen Adreena!), le inquietudini di “This evening in the city”, il clima da raffinato night-club di “To spy the pleasure”, i frementi saliscendi di “You want a perfect sound” e le ombre pulsanti di “Fearfull”, vi porteranno in un
singolare universo sonoro, dove convivono Radiohead, Cure, Ours, le già citate Polly Jean e Bjork Guðmundsdóttir e perché no, anche qualcosa di Amy Winehouse e Duffy (senza voler
scomodare le grandi del rhythm n’ soul).
Si potrebbe criticare la scelta di un approccio troppo
spostato sulla cantante, in cui il dinamismo dei brani appare sacrificato sull’altare di corde vocali superiori per timbrica e interpretazione, ma è un aspetto censurabile solo fino ad un certo punto, per un gruppo che all’esordio cerca di giocare tutte le sue
carte migliori e sono sicuro in futuro, cancellando questa piccola
macchia (se così vogliamo chiamarla!) dal suo elegante e sontuoso
vestito, acquisirà anche maggiore sicurezza e convinzione sotto il profilo della vitalità compositiva.
Debutto con i fiocchi, e chi se ne importa della biografia …