No, non ci siamo, non ci siamo proprio.
Avoglia a dire
Peter Wichers, chitarrista rientrato da pochissimo alla base dopo un'assenza di qualche anno (nonchè produttore, ingegnere del suono ed addetto al mixing...altro no?), che le cose si siano sistemate nei
Soilwork, di fatto bocciando due album decisamente insipidi (a volergli bene, se stasera non avessi dato giù col vino rosso avrei detto "osceni") come "
Stabbing the Drama" e "
Sworn to a Great Divide", descritti come uno squallido tentativo della sua band di inseguire il commerciale senza alcun costrutto dietro.
"
The Panic Broadcast", ottavo album della formazione di
Helsingborg, forse ha il risultato di schiacciare nuovamente un po' sull'acceleratore, ma di certo pestare non significa ritornare a scrivere brani di qualità.
Nessuno si è mai sognato di lamentarsi di "
Figure Number Five", un disco oltremodo leggero ed aperto alla massa, ma denso zeppo di brani con la B maiuscola, ricchi di feeling e riuscitissimi dal punto di vista della qualità, segno che non è stata la pesantezza a mancare negli ultimi due lavori da studio dei Soilwork, quanto la convinzione di fare musica adulta e decente.
Non sono sufficienti due assoli di classe o qualche apertura geniale durante canzoni ordinarie come "
Two Lives Worth Of Reckoning" o "
Let This River Flow" in quanto sappiamo che il gruppo capitanato da Strid sa e ha dato molto di più in passato, ed è un peccato vedere lo stesso campare di rendita con album composti svogliatamente in qualche manciata di ore o poco più: riffs assolutamente banali, chorus melodici ma senza il guizzo di una volta, strofe messe lì quasi banalmente in imbarazzo, in attesa della soluzione vincente che non arriva mai, e "
The Thrill" ne potrebbe essere una testimonianza decisiva, se non fosse altro che "
The Panic Broadcast" è tutto così; sì, nettamente fatto meglio dei suoi due predecessori, ma i tempi di "
A Predator's Portrait" e "
Natural Born Chaos" sono non lontani, piuttosto inarrivabili.
Tanto manierismo, esperienza a iosa, ma un disco fatto con il manuale sotto mano e nulla più: una band che una volta arrivata non ha saputo stimolarsi ulteriormente per fare un ulteriore salto di qualità e questo è un gran peccato.
Tutto bene per chi di questi tempi si accontenta, ma per i Soilwork di vera qualità bisogna fare un bel salto indietro nel tempo, di almeno 7/8 anni; speriamo perlomeno che nel frattempo abbiamo imparato a suonare dal vivo ed a preparare degli spettacoli degni di questo nome, nel frattempo "
Deliverance Is Mine" sarà solo un lieto intermezzo tra le clamorose "
Rejection Role" e "
Follow the Hollow".
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