“W:A:R”, ovvero
We Are Renegade, al contempo una sorta di dichiarazione di
esistenza e d’identità artistica per i fiorentini
Renegade, i quali, giunti al terzo album, gridano al “mondo” tutta la loro voglia di “spaccare” e di emergere con prepotenza da questa folla di frequentatori dell’heavy metal “classico”.
Inutile nasconderlo, il genere sta vivendo una sorta di seconda “giovinezza” e anche le etichette apparentemente più lontane alla sua natura stanno cercando di rastrellare ambasciatori credibili (mi viene in mente l’Earache con i White Wizzard, per esempio), capaci di soddisfare “tutti” questi “metallari” di ritorno.
Fanno bene a cercare di farsi sentire con risolutezza, perché è chiaro fin dal primo ascolto del loro nuovo disco che i Renegade hanno tutte le carte in regola per non passare inosservati anche nell’ambito del recente esteso
rientro d’interesse per questi
antichi suoni, dimostrandosi ancora una volta dei fieri e valenti propugnatori della versione più tradizionale e “nobile” di quella musica che fa dell’impatto
sensibile e della forza “bruta” le sue caratteristiche fondamentali.
E’ ancora una volta necessario parlare di devozione totale ai dogmi ottantiani (in un’ipotetica linea “rossa” che va approssimativamente dai Maiden ai Crimson Glory, passando per i Judas Priest), con relativa inevitabile postilla sulla mancata “personalità”
tout court del prodotto, ma tra le formazioni che manifestano tale “fedeltà” senza ostentare un’eccessiva focalizzazione nei confronti dei modelli, è impossibile non annoverare i nostri competenti e abili metal-heads toscani, davvero efficaci nel riproporre temi e norme espressive molto “familiari” sfuggendo al rischio di risultare eccessivamente simili a questo o quell’altro dei loro numerosi numi tutelari.
Una produzione secca e decisa, una voce potente, graffiante e sufficientemente duttile, due chitarre dirompenti nei riff e in grado di offrire soli calibrati e ficcanti e una sezione ritmica quadrata e solida, sono gli strumenti al servizio di canzoni strutturalmente piuttosto essenziali eppure sempre in grado di tenere alta l’attenzione e il livello di coinvolgimento.
Personalmente preferisco i Renegade quando lasciano fluire la loro essenza musicale sotto forma di urgente e granitico “wall of sound”, come accade in “First blood”, nell’eccellente “Masquerade”, nella convulsa “Under my skin”, in “Burning highway” e in “Can't stop the fire”, e, tuttavia anche nei momenti meno impetuosi i cinque Rinnegati risultano abbastanza godibili e riescono a farsi apprezzare attraverso i tracciati maggiormente cadenzati di “Wired” e dell’ottima title-track, o, ancor di più, in una power ballad come "Where time stands still”, dove Senesi sembra quasi voler rivestire i panni di un Robert Plant particolarmente
contrariato.
Meritevole di menzione, poi, in senso positivo, “Wild days”, dalle trame vagamente Accept-iane sviluppate su un affascinante terreno melodico e, in senso opposto, “No reason in love” una circostanza
soft troppo poco distintiva per conquistare nettamente sensi e consensi.
La concorrenza è agguerrita e florida, ma il consiglio è di considerare i Renegade come una priorità all’interno di quell’inossidabile realtà musicale chiamata Heavy Metal.
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