E’ già da qualche
annetto che
Stan Bush delizia in nostro apparto
cardio-uditivo con la sua arte sublime, e precisamente da quel lontano 1979 che lo vide debuttare con i Boulder.
Siamo già arrivati all’undicesimo album e devo dire che il tempo per Mr. Bush non sembra essere passato, o per meglio dire, proprio come accade ai vini di qualità, l’
invecchiamento non è stato per nulla
deleterio, consentendoci di gustare ancora una volta, con questo eccellente “Dream the dream”, l’ennesimo esempio di magistrale rock radiofonico statunitense, dove il caratteristico
bouquet delle chitarre grintose si stempera nell’
aroma intenso delle atmosfere rarefatte.
Non vorrei essere frainteso: con l’affermazione precedente non intendevo sostenere che la proposta di Stan si sia artisticamente
cristallizzata negli eighties; nonostante la sua innegabile e solidissima matrice stilistica, la musica dell’incredibile cantante / compositore (e chitarrista) di Gainesville, ha saputo mantenersi “al passo con i tempi” (ascoltate certe chitarre di “If this is all there is” o l’arrangiamento delle favolose “All that I am” e “Sam's theme (the touch)” – rilettura “aggiornata” dell’hit tratto da “The Transformers: The Movie”- per referenze immediate) senza snaturarsi, risultando fresca e vitale anche a distanza di un trentennio dalla sua prima apparizione.
Dopo aver incensato, su queste stesse colonne, il precedente “In this life”, quindi, non posso che ripetermi con lo stesso entusiasmo per questa nuova collezione di brani invincibili, in cui l’apporto di Holger Fath, Bobby Barth (Axe, Blackfoot), Curt Cuomo (Kiss, Eddie Money), Ed Tree e Lenny Macaluso in sede compositiva fa da contraltare ad un team di musicisti di comprovata fama che comprende, oltre allo stesso Fath (impegnato anche in un’impeccabile produzione), anche Matt Laug (Alice Cooper, Richard Marx, Eddie Money, Anastacia, …) e Matt Bissonette (Rick Springfield, David Lee Roth, …).
Insomma, uno schieramento privo di debolezze per un disco altrettanto irreprensibile che piazza in apertura una “Never hold back” caratterizzata da un
pizzichino di mestiere nella struttura armonica, ma che poi comincia davvero la sua missione di soggiogamento dei sensi con “I'm still here” e “Don't give up on love”, merce assai “rara”, pregna di classe nitidissima e degna di enorme considerazione, sulle piste del migliore John Waite.
L’arrivo della magistrale “Two hearts” (che i più attenti avranno già apprezzato nella versione dei CITA su “Relapse of reason”) sembra veramente “spaccare in due” il cuore degli appassionati della melodia magniloquente ed illuminata, concedendo loro un appassionante volo nella stratosfera di questi suoni.
Si continua a solcare I cieli con “In my life” uno di quei classici
slow-number così emozionanti poiché assolutamente equilibrati nel mescere enfasi, romanticismo e intensità.
“Love is the road” manifesta un’imponente carica melodica, mentre di "If this is all there is”, “All that I am” e “Sam's Theme (the touch)” qualcosa abbiamo già detto, e qui aggiungeremo solo delle impetuose vibrazioni vocali della prima, dell’incredibile “coefficiente di penetrazione” emozionale della seconda e del brillante tocco malinconico inserito nell’ispirata verve “modernizzata” della terza.
Non resta che commentare brevemente l’incontenibile energia pomposa della title-track, l’urgenza agrodolce di “More than a miracle” e la “semplicità” di “Your time”, congegnata con tutta la forza di una melodia
adulta (tra Waite e Brian Adams) ben costruita.
Con Stan Bush il “sogno americano”, quello più bello, suggestivo e iridescente, continua senza sosta.
Non svegliatemi, ve ne prego …