A tre anni di distanza dallo sciapissimo e praticamente ormai dimenticato "
In Sorte Diaboli" ecco tornare, sull'onda di una massiccia campagna promozionale strombazzata con tutti i mezzi dalla potente
Nuclear Blast, i sempre più mainstream
Dimmu Borgir alle prese con il nuovo album "
Abrahadabra", un titolo che stupisce sia per il bizzarro titolo sia perchè è composto da una sola parola in luogo delle classiche tre che la band norvegese ama usare sin dal capolavoro "
Enthrone Darkness Triumphant" del 1997.
Accantonati
Hellhammer e Vortex, l'ossatura dei Borgir rimane avviluppata quindi unicamente sul trio
Silenoz, Shagrath e Galder che si avvalgono di una gran produzione, di arrangiamenti di prim'ordine, di cori ed orchestre di livello: "Abrahadabra" si presenta pomposo e barocco come il disco più prolisso e pretenzioso di
Rhapsody, Malmsteen e Cradle of Filth messi assieme, creando un melting pot di teatralità e sceneggiata fin troppo appesantito (l'opulenza strabordante di "
Gateways" ne è un lampante esempio).
Purtroppo grattando sotto questa superficie laccata finto-oro, non troviamo che un normalissimo piombo, niente affatto prezioso; tutto lo sforzo in fase di registrazione e di post-produzione riesce a coprire le preoccupanti lacune che attanagliano ormai da diversi anni i Dimmu Borgir, sempre più lontani da quel gruppo geniale che sapeva mescolare a perfezione e gran classe un classico black metal con elementi sinfonici e che oggi invece lo seppellisce a tal punto che spesso, nei momenti in cui Shagrath non canta, sembra di ascoltare i
Kamelot.
Pesante crisi di ispirazione, abilmente celata da tanto sfarzo, o semplice decisione di cimentarsi in qualcosa oltre le loro abilità da musicisti?
Per rispondere a tale domanda dovremo aspettare ancora un disco, forse due, ma di certo i Dimmu Borgir non fanno centro pieno dall'ormai vetusto
Death Cult Armageddon, pubblicato ormai ben 7 anni fa.
Ovviamente l'esperienza gioca un importante ruolo nel processo di songwriting dei nostri ed in ogni caso brani come la già citata "
Gateways" fanno la loro porca figura, specialmente se sparati a considerevole volume da un impianto stereo di buon livello; lasciano invece piuttosto sconcertati composizioni come l'opener "
Born Treacherous" e "
Chess with the Abyss", avvilenti per la loro piattezza.
Anche l'omonima e celebrativa "
Dimmu Borgir", a parte una sorprendente sezione orchestrale, tra un coretto e l'altro lascia un profondo senso di amarezza, tanto che sembra più di ascoltare il concerto di capodanno su Rai Uno che un gruppo metal, tanto più "black".
Si salvano ovviamente lampi di classe qua e là e brani come "
Ritualist", buoni nelle intenzioni ma anch'essi oberati dall'eccessiva teatralità, specialmente nelle voci di Shagrath e Snowy Shaw che anzichè urlare come dovrebbero si dilettano a fare i cantanti d'opera.
Senza parole.
Dove sono finite le stilettate di "
Spellbound", la diabolica atmosfera di "
Entrance" e la feroce magniloquenza di "
Blessings Upon The Throne Of Tyranny"?
Tutte inglobate in questa dannata voglia di strafare, di arricchire oltre i limiti di uno stile, anzi di un genere musicale come il metal che ha e deve avere i propri naturali confini.
Facendo un parallelo, sembra di assistere alla stessa storia che ha visto protagonisti i nostrani
Rhapsody (mi rifiuto di aggiungere il ridicolo suffisso "of Fire"), schiavi ad un certo punto dell'hollywood metal in cui si sono rinchiusi, finendo per comporre colonne sonore di film anzichè dischi metal degni di questo nome.
Tutto questo non cambierà la popolarità dei Borgir, specialmente tra i giovanissimi fans che Silenoz e soci stanno acquisendo sempre più negli ultimi anni, ma coscienza impone di censurare composizioni del genere, completamente "fuori tema" benchè tecnicamente ineccepibili.
Il metal è decisamente altro.