James LaBrie si cambia d’abito: dopo una carriera più che ventennale con i Dream theater, il canadese sfoga il suo bisogno compositivo e, grazie al fido
Matt Guillory, scrive il disco più pesante della sua discografia solista.
Circondato da una band di mostri, James tira fuori un platter, questo “
Static Impulse”, che di statico ha giusto il titolo: le composizioni sono tiratissime, variegate, dominate da un drumming selvaggio e chirurgico ad opera di
Peter Wildoer, mentre il superlativo
Marco Sfogli fa vedere di che pasta è fatto, tra assoli al fulmicotone e riff spaccaossa. Il trittico iniziale è da infarto, senza un istante di pausa e con il metronomo lanciato a mille bpm, mentre “
Euphoric” respira un attimo, regalandoci un mid-tempo melodico e ben costruito. Ma c’è poco tempo per rilassarci, visto che “
Over the Edge” ci accoglie con un riff che sembra uscito da un disco dei Priest, per non parlare delle sfuriate di doppia cassa su “
I Need You”. La voce di James giostra con insperata perizia e conduce le danze, mentre le screams assatanate di Peter fanno da inaspettato quanto piacevole contraltare. Il momento forse più dreamtheateriano del disco è “
Who you think I am”, che fa un po’ il verso alle ultime produzioni estremamente chitarrose della band madre, mentre “
Just Watch Me” ha il ruolo di power ballad, permettendoci di apprezzare il timbro di James, che sa tornare su tonalità alte, come non succedeva da anni in un album targato DT. Ma le mazzate non ci vengono risparmiate, e così arriva una “
This is War”, che già dal titolo non fa prigionieri: strofa in blast beats e screams, ritornello melodico e dal riffing ipnotico, bella roba davvero. Ma per voi, amanti dei riffoni a 7 corde, la pacchia non finisce mai: ascoltare per credere l’attacco di “
Superstar”, in cui
giacomino LaBrie sfodera la sua interpretazione più cattiva, sempre più ispirato. Il platter si conclude con una delicata “
Coming Home”, un destino nel titolo, quasi che James cantasse il piacere di essere tornato a casa, nel suo spazio creativo, libero da doveri e necessità di music business, che hanno quasi ucciso i Dream Theater.
È un piacere sentirlo cantare le sue canzoni, come se quest’album fosse un rituale di liberazione da una prigione stilistica in cui lui, e non solo lui, era stato ingabbiato dal duo Petrucci/Portnoy. Il che ci conduce alla riflessione finale…
Questo disco mi piace davvero tanto, ma il solo fatto che esista apre una miriade di possibili discussioni… Mike Portnoy lascia i Dream Theater, James LaBrie sforna un album fresco e piacevole, che gli restituirà dignità e amore dalla fan-base: cosa ne sarà della band-madre? Personalmente, come si suol dire, la veggo buia…