Inutile girarci intorno.
Ormai siamo abituati a questo tipo di cose, a reunion “inaspettate”, magari anche dopo separazioni burrascose condite da dichiarazioni di “fuoco”, cancellate con un colpo di spugna in nome di una ritrovata armonia d’intenti artistica e spirituale, a cui, francamente, è spesso molto difficile prestare fede.
Eppure questo non è un “ritorno” come gli altri, almeno per chi conosce la storia degli
Unruly Child, il loro
pedigree (King Kobra, Signal, Stone Fury, World Trade), ha guardato con lo stupore tipico di un
fanciullo (anche se non lo era più!) incantato di fronte ad un fenomeno prodigioso il loro debutto targato 1992 e ha poi seguito le vicende del gruppo, compresa la
tormentata trasformazione “anatomica” di una delle voci più ricche di personalità, di qualità tecnica e d’intensità interpretativa dell’intera scena melodica internazionale, diventata il sublime strumento di espressione di una donna, mentre originariamente era stato il primario mezzo di conquista sensoriale di un uomo.
Insomma, “Worlds collide” si presenta con l’oneroso fardello di riprendere il discorso interrotto in quel lontano 1996 (anno in cui uscì “Tormented” licenziato a nome di Marcie Free, ma, di fatto, il secondo capitolo della band), e poco importa se nel frattempo sono stati pubblicati due (ottimi peraltro, cantati da Kelly Hansen e Philip Bardowell) dischi sotto il nobile marchio del
Figlio Indisciplinato; gli Unruly Child più autentici e attesi non possono che essere quelli di questa line-up, con Marcie Michelle Free alla gestione microfonica.
E proprio dalla sua performance credo sia opportuno iniziare a dipanare questa impegnativa e
ansiogena (come tutte quelle che riguardano situazioni ad alto grado di coinvolgimento emotivo … dimenticatevi un esame freddo e distaccato!) disamina: personalmente, superata una comprensibile sorpresa iniziale, non sono mai stato particolarmente interessato al cambiamento di sesso di Mark Free, e dopo aver rilevato il coraggio di una persona che con le sue scelte di vita rischiava, in un mondo pieno di tabù (negli anni ’90 come oggi, a ben vedere), anche la propria carriera professionale, l’unica cosa veramente importante, oggetto di giudizio, è sempre stata solamente la sua prestazione vocale.
Ebbene, pure ora che le foto promozionali di supporto alla release la ritraggono più simile ad un’
eccentrica professoressa di matematica con una passione per la
Carrà, che non ad una cantante rock, quello che realmente mi interessa è sentirla cantare.
Sono sufficienti, infatti, le prime note della vibrante “Show me the money” per rendersi conto che la magia contenuta nei suoi registri vocali non è andata persa nel tempo e non è stata spenta dalle analisi finanziarie cui, a quanto sembra, la nostra Marcie si è dedicata nel periodo di lontananza dal
music-biz.
A dire la verità, qualcosa è cambiato, in modo naturale e
ineluttabile direi, dacché il timbro di Miss Free ha probabilmente perso un pizzico di esplosività, acquistando però, forte della sua maturità, una maggiore raffinatezza complessiva, la quale, unita alle notorie sfavillanti prerogative espressive, non potrà che appassionare tutti gli estimatori del “bel canto”.
Come sempre, nemmeno una grande singer come Marcie Michelle da sola può sostenere le sorti di una pubblicazione discografica, ed ecco che entrano in gioco gli altri membri del gruppo, la loro qualità esecutiva e compositiva, in cui la rara intelligenza e sensibilità di Bruce Gowdy appare il classico valore aggiunto di un team che si dimostra affiatato e scintillante proprio come ai “tempi belli”.
Confermata la matrice sonora immersa nell’hard dei seventies e i tenui bagliori prog, “Worlds collide” è ancora una volta un fulgido esempio di rock melodico dotato d’impressionante tensione espressiva, dinamico, avvolgente e sofisticato, capace di ostentare una calibrata mistura di Led Zeppelin, Bad English, Van Halen, Foreigner, Beatles, Brian Adams ("Read my mind” sembra proprio una scaturita da una
proficua jam tra i baronetti e il cantautore canadese, eseguita con il contributo dei Thin Lizzy!) e Bon Jovi (un pezzo come "Love is blind” sono anni che il buon Jon non riesce a realizzarlo!), attraverso piccoli nuovi capolavori in note sciorinati uno dopo l’altro senza pause significative e culminanti nel prepotente contagio sensoriale di “When worlds collide”, nell’AOR fluttuante di “When we were young”, nella superba “Talk to me”, dispensatrice d’inarrestabili brividi di vera partecipazione emotiva, nella suggestione rootsy e vagamente Floyd-
iana di “You don’t understand “, e arrivando alla già citata opener, a “Insane” ed a "Life / Death”, in qualche modo credibili epigone di "On the rise", “Long hair woman” e “High & dry”, in quel percorso che conduce il celebre Dirigibile britannico a solcare panorami yankee, non senza aver attraversato misteriosi cieli mediorientali.
Non rimane che affrontare quella domanda, superflua, vana e sconveniente finché si vuole, eppure così subdola e quasi impossibile da scacciare: “Worlds collide” raggiunge concretamente la magnificenza di “Unruly Child” e “Tormented”? Mi spiace, al momento non sono in grado di rispondere in maniera definitiva, perché amo troppo quei dischi e li ho vissuti in una maniera troppo “totalizzante” (l’intensità provata con “Who cries now”, per esempio, è qualcosa di difficilmente replicabile) per fornire un’opinione lucida.
Confermo appieno, tuttavia, lo incipit della recensione: questo non è un ritorno “normale” … già perché è davvero, al di la di ogni poco proponibile paragone, un lavoro
straordinario.