Sopravvalutati, come sostiene qualcuno (anche assolutamente autorevole, come il sommo “vate” giornalistico nostrano Beppe Riva, se non ricordo male) o invece, seguendo un’opinione altrettanto diffusa,
criminalmente sottostimati, probabilmente anche per la loro provenienza britannica, da sempre un ostacolo alla credibilità in campo AOR, nei confronti dei colossi americani impegnati nello stesso settore?
Personalmente propendo in maggior misura per la seconda delle ipotesi, dal momento che considero gli
Strangeways di “Native sons” and “Walk in the fire” (soprattutto di quest’ultimo), guidati dai fratelli scozzesi Ian e David Stewart e impreziositi dall’ugola dorata dello yankee Terry Brock (sostituto del pur bravo Tony Liddell, vocalist nell’auto-intitolato esordio), uno dei più temibili concorrenti albionici alla supremazia yankee di settore, al fianco dei Dare di “Out of the silence”, Magnum, The Babys, Grand Prix, dei miei prediletti Shy e di pochissimi altri.
Sottolineare proprio quella fase della carriera del gruppo (il quale ha poi pubblicato altri 3 dischi con Ian Stewart dietro al microfono, di cui, francamente, ho scarsa conoscenza, ma che sospetto, viste le loro peculiarità definite maggiormente “atmosferiche”, abbiano comunque avuto un qualche influsso anche nell’approccio musicale di questo Cd) è doveroso sia per motivi squisitamente artistici e sia perché la sua
rentrée, con una line-up modificata solo nella defezione del bassista David Stewart (in favore della new-entry Warren Jolly), si rifà apertamente proprio a quel periodo, supportato (con esplicita dichiarazione nel materiale promozionale che accompagna l’uscita) dall’intento di riprendere il discorso interrotto nel lontano 1989, forti, come ci si aspetta da una band ricca di personalità, di una naturale maturità acquisita negli anni.
Ebbene, qualcosa non deve aver funzionato pienamente nell’operazione di
illuminato amarcord, dal momento che “Perfect world” recupera, in effetti, gli arrangiamenti sofisticati, i bagliori di techno-AOR e le melodie intriganti dell’epopea aurea della band, ma tende anche a stemperare il tutto in una ambientazione particolarmente soffusa e “spirituale”, discretamente suggestiva eppure di certo non esattamente consona a smentire le (per me abbastanza gratuite) accuse di “scarso dinamismo” che già ai “tempi belli” erano affiorate nelle parole impiegate dai detrattori della formazione britannico-statunitense.
Questo non rende necessariamente il prodotto una faccenda assolutamente trascurabile, perché la voce di Brock, nonostante il
super-lavoro a cui si è sottoposta recentemente (tra Giant e carriera solista) si conferma un vero prodigio (e pensare che c’è chi lo ritiene solo un ottimo “corista” … mah …) di morbidezza ed espressività e perché l’impatto melodrammatico e il pathos poetico delle composizioni, se non proprio istantaneo, si rivela sicuramente in grado di sollecitare a sufficienza le sensazioni più intime dell’ascoltatore che vorrà dedicargli la giusta attenzione e soprassedere su una produzione non
esattamente entusiasmante.
Alla luce dei fatti, dunque, assieme agli abituali Journey, Starship, Survivor e Giuffria, si possono altresì citare gli ultimi Dare e i Foreigner più vellutati (nonché addirittura qualche traccia dei Pink Floyd
Gilmour-driven e degli U2!) come attendibili riferimenti di un disco che ha nella title-track, nella fuga onirica di “Time” (una canzone che piacerà di certo pure a Darren Wharton!) e “Say what you want”, nei rari fiotti energetici di “Movin’ on” e “Can t let you go”, nelle scintille blues di "Liberty” (vagamente Bolton-
iana) e nell’enfasi orientaleggiante (un po’ stucchevole, forse) di "Bushfire” i suoi momenti migliori.
Una lieve monotonia compositiva di fondo non permette a “Perfect world” di aspirare in maniera risoluta ai vertici del settore e temo pure che rappresenterà un limite insormontabile per considerarlo un’attendibile
estensione di “Walk in the fire”. Rimane un disco complessivamente gradevole, che ci riconsegna una band forse un pochino
apatica e non completamente lucida e sembrerebbe avvalorare l’opinione di chi considera gli Strangeways un soggetto artistico di buon livello e tuttavia piuttosto lontano dai fuoriclasse del genere. Smentirli in maniera inequivocabile deve diventare l’obiettivo futuro di un team in grado di fare molto di più, come ha già, del resto, ampiamente dimostrato.