A distanza di 4 anni tornano sulla ribalta i
Virgin Steele del grande vecchio
David DeFeis che inesorabilmente prosegue la sua marcia, una volta trionfale ed oggi forse non così più vittoriosa come fino a 10 anni fa.
In realtà "
The Black Light Bacchanalia" ha sulle spalle il fardello di un album come "
Visions of Eden", un disco che sicuramente accontentò il nostro Luca Franceschini ma che lasciò tra l'interdetto ed il deluso molte schiere di fan storici, tra i quali anche il sottoscritto.
E' bene dire fin da subito che probabilmente coloro che nel 2006 storsero la bocca lo faranno anche stavolta, anche con maggior disappunto se possibile: "The Black Light Bacchanalia" prosegue il discorso portato avanti dal capitolo precedente e ne porta con sè tutti i difetti e le caratteristiche che avevano inficiato quel lavoro.
Sebbene il giudizio tracciato su questo nuovo album si basi su un penoso ascolto in streaming per via della pirateria, pare piuttosto evidente che la produzione sia nuovamente deficitaria, sia a livello di "potenza sonora" sia a livello di povertà di arrangiamenti, e questo è inconcepibile per una band del calibro dei Virgin Steele, quando un qualsiasi gruppo misconosciuto agli esordi riesce a godere di una registrazione più che accettabile, se non brillante.
Accantonato il pur enorme problema della produzione, che tocca il proprio apice con la chitarra di Pursino sepolta sotto la voce di David e degli altri ed un suono di batteria che pare provenire dalla peggiore delle drum machine, arriviamo alla vera nota dolente, quella musicale, che ci consegna dei Virgin Steele spesso davvero deficitari sotto il punto di vista dell'ispirazione; non si tratta tanto della delusione per la mancanza di un ritorno al passato, d'altronde il tempo passa per tutti e dopo undici album possiamo capire ed accettare il desiderio di guardarsi altrove, ma l'ascolto di brani come "
In a Dream of Fire" e specialmente "
Pagan Heart" ucciderebbero l'anima anche del più infervorato ed irriducibile fan del quartetto statunitense: brani spompatissimi, arrangiamenti poveri e spesso imbarazzanti, pianoforti che sembrano pianoline bontempi di quelle che negli anni '80 si regalavano ai bimbi per la cresima o la comunione, assolutamente privi di quel furore epico che ha sempre contraddistinto le composizioni di questa grandissima e sfortunata band.
Se manca il furore per fortuna è rimasta la classe che emerge purtroppo solo a sprazzi qua e là e non in maniera continuativa, ma è difficile resistere alla poesia delle delicate "
Nepenthe", "
Eternal Regret" e "
The Tortures of the Damned" e di "
The Orpheus Taboo", mentre "
To Crown Them With Halos" è molto altalenante, alternando sprazzi di luce a notevoli ombre e momenti di stanca, gli stessi che si moltiplicano lungo tutta la durata di "The Black Light Bacchanalia" e che lasciano l'ascoltatore di fronte a brani o piuttosto anonimi ed insipidi ("
The Bread of Wickedness") o decisamente brutti (come la title track, quasi avvilente, o "
Necropolis").
Se i brani migliori del disco sono le tre notevoli ballad vuol dire che c'è qualcosa che non va...
Non avrei mai pensato di doverlo fare, ma "
The Black Light Bacchanalia" è un album spompato, poco ispirato, per giunta che suona male e che non raggiunge la sufficienza, nonostante i vari tocchi di classe, tocchi che però non bastano più e che annegano nella mediocrità.
Altra delusione dopo "
Visions of Eden"... non resta che confidare, nuovamente, nel futuro.