Non vantano precedenti incredibilmente illustri, non sono una band di
ritorno dagli anni ’80 (anche se per l’assoluta competenza e la grande sicurezza, lo potrebbero sembrare), arrivano da una terra non particolarmente “promessa” per la musica che propongono, si chiamano
White Widdow e sono uno
scintillante ambasciatore del pomp/AOR.
Spirito “radiofonico” evoluto, eccellente tecnica strumentale, sostenuta da chitarre nitide e taglienti, da una voce dotata di un impeccabile spettro timbrico e da una profusione di estetizzanti tastiere, sono le caratteristiche fondamentali di quest’esordio sulla lunga distanza del sorprendente quintetto australiano, capace di offrire agli estimatori del genere un programma di enorme gusto e caratura compositiva, palesemente sviluppato sulla lezione dei maestri, ma anche talmente disinvolto e pertinente da apparire davvero impressionante.
Preparino i
cardiotonici, dunque, i fans di Aviator, Surgin, Bon Jovi, Bystander, White Sister, Survivor, Dokken (soprattutto nelle chitarre del
paisà Enzo Almanzi), Giuffria e Treat, poiché in “White widdow” troveranno tantissime causali in grado stimolare una benefica
tachicardia del loro
pomposo cuoricino, alcune anche parecchio
familiari, ma non per questo meno intense e prepotenti.
Apre la selezione dei potenziali rischi d’
infarto, dopo l’intro denominato “Shoukai”, “Tokyo rain”, coacervo d’impatto melodico, eleganza e forza, segue “Broken hearts won't last forever”, illuminato rimaneggiamento della grande tradizione AOR, mentre “Cross to bare” sembra
quasi opera del
divino Mangold, tanto è coinvolgente e valorosa nella sua compiuta sfarzosità.
Cosa dire, poi, di “Don't fail me now”, fatta di una pulsante e ispirata materia tra Danger Danger e Journey, di “Spirit of fire”, preziosissima gemma degna dei migliori Treat, della struggente ballatona “Shadows of love”, uno “spezza-cuori” privo di retorica, di “Change of passion”, di cui andrebbe fiero pure un’autorità come Jim Peterik e di “Fire & ice”, che ci mette davvero un istante a entrare in circolo, grazie ad un tracciato armonico e a un chorus istantanei e piacevolmente ruffiani? Che sono canzoni oltremodo emozionanti, da ascoltare a lungo senza cenni di noia, che attingono a piene mani dai “classici” e li filtrano con vivida esuberanza e valori tecnico-creativi piuttosto elevati.
Il lavoro di Martin Kronlund (Overland, Joe Lynn Turner, Hammerfall, Bangalore Choir) in sede di masterizzazione e missaggio, conferisce il giusto risalto sonoro ad un disco notevole che vi consiglio caldamente d’inserire subito nella vostra
paradisiaca collezione, proprio accanto ai
faraoni (
in seta bianca, com’era solito dire un
certo Beppe!) del settore … saranno orgogliosi di avere vicino un “giovane” discepolo così devoto e intraprendente.
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