“X”, come una pragmatica computazione del proprio percorso artistico, ma anche come rappresentazione grafica di quell’
incognita che solo i grandi gruppi come gli
Spock's Beard sono in grado di risolvere nella sempre difficile
equazione del prog rock.
C’è bisogno, infatti, di un qualcosa di quasi “imponderabile” per evitare il tecnicismo fine a se stesso e la sterile contemplazione del passato, per raggiungere quel delicato equilibrio tra fantasia e grazia, tra imprevedibilità e melodia, tra
ragione e
sentimento.
Anche senza l’apporto di un
vate come Neal Morse e pure se costretta ad una sorta di “azionariato” popolare per la produzione dell’albo (la crisi colpisce un po’ tutti, ahimè …), la straordinaria formazione americana dimostra ancora una volta di saper svolgere tutti i passaggi dell’operazione con enorme disinvoltura, offrendo per di più all’ascoltatore la netta impressione di una formula alimentata in primo luogo dalla vocazione e dall’emozione e quindi tutt’altro che
matematica.
E il tutto pur travolgendo l’astante con tonnellate di tecnica atte a sviluppare un’ammirazione incondizionata da parte anche del
musico più smaliziato (nonché presumibilmente capaci altresì d’indurre alla rinuncia qualche esecutore in erba magari non sufficientemente determinato!), senza per questo apparire ostici o pleonastici alle orecchie di chi è giusto in grado di suonare (decentemente) il campanello di casa.
C’è molta “classicità” nella proposta attuale degli Spock's Beard, tanti anni settanta (Pink Floyd, King Crimson, Yes, ELP, Gentle Giant, …) e anche una dose importante dei
sixties (gli impasti vocali e le atmosfere caleidoscopiche dei Beatles, vedi certi momenti di “The emperor's clothes”, o anche la porzione finale della favolosa suite “From the darkness”, ad esempio), ma, come anticipato, anche in questo caso, non affiora la benché minima ombra di una forma di manierismo nell’assimilazione della grande tradizione del rock.
“X” è
semplicemente un lavoro encomiabile per come ricche armonie e fughe tastieristiche, aperture enfatiche e sinfoniche, chitarre immaginifiche, schegge sagaci ed efficaci di vibrante energia (“The quiet house” a dispetto del titolo, è un bella prova di forza
hard-rock trapuntata dall’immancabile eleganza e anche lo strumentale “Kamikaze”, dalla denominazione più eloquente, si segnala per determinazione e creatività), estrosi e intensi intrecci ritmici, voci espressive ed eufoniche e
audaci sterzate sonore, si fondono in una struttura simbiotica in cui è la melodia la grande sovrana, il
minimo comune denominatore di una musica entusiasmante e coinvolgente, corroborante per la mente e per il cuore.
Nonostante le “naturali” dilatazioni, i brani si dipanano con freschezza e fruibilità, scongiurando allo stesso modo eccessi di banalità o di eccentricità, e sarà agevole trovarseli “attaccati” alla memoria un secondo dopo aver apprezzato la classe, la perizia e la cura con cui sono stati realizzati.
Un album in cui le citazioni sono veramente superflue (me ne concedo solo una, “The man behind the curtain”, un pezzo se vogliamo abbastanza singolare nell’economia dell’albo e assai “impressionante”, con un retrogusto interpretativo vagamente Bowie-
iano), da vivere e da scoprire ascolto dopo ascolto, canzone dopo canzone, arrivando all’unica conclusione possibile … gli Spock's Beard rimangono uno dei gruppi più significativi del settore.