La leggenda narra che tutto nacque, o per meglio dire ri-nacque, in una serata al CBGB's di NY organizzata nel 2000 per presentare un progetto 'rock-drum and bass' di Will Calhoun e Vernon Reid; caso 'fortuito' volle che nel set facessero una comparsata anche Corey Glover e Doug Wimbsh per suonare un breve set di vecchi pezzi e....ecco qui, i Living Colour tornano a dieci anni di distanza da "Stain", con "Colleidoscope". Il disco nasce dunque da una lunga gestazione, due lustri in cui singolarmente ogni membro ha speso tempo ad 'affinare' le proprie conoscenze, rismescolandole in una scrittura maturata senza fretta ma nondimeno carica di energia e determinazione. E' un disco figlio del suo tempo, denso delle paranoie del mondo 'post-11 Settembre', tragedia a cui viene dedicato molto spazio nei testi, vissuta sia sotto un piano umano ma anche piu' generale per raccontare una America agli occhi dei quattro musicisti preda più che mai della paranoia, del denaro e del controllo sociale. Tutto questo in una ricetta musicale più che mai vicina ai classici temi del gruppo, una rilettura della black music, in chiave hard rock che, partendo da Hendrix, passa per George Clinton ed arriva a lambire i ritmi primitivi della madre Africa. A colpire immediatamente l'immaginazione i brani più heavy che riportano alla mente i l'epopea di "Time's Up": "Song Without A Sin", "A ? Of When", "Lost Halo" riecheggiano dei riff e degli assoli di Vernon Reid, che sembra non essere stato minimamente scalfito dal tempo come del resto gli altri, in particolar modo Corey Glover la cui calda voce e' assoluta protagonista sia quando si tratta di urlare, perfetta la sua performance nella rilettura, per la verità alquanto fedele del classico "Back in Black", sia quando il suono si tinge di blues come accade in "Holy Roller". E' proprio quando "Colleidoscope" diviene più di 'nero' che regala i suoi momenti più brillanti, nel funk di "Flying", nel soul oscuro di "Happy Shopper", nelle coloriture ipnotiche di "Sacred Ground" e reggae di "Nigthmare City", lo stesso stato di trance evocato dalle contaminazioni elettro-noise qui e là disseminate nelle tracce e concentrate soprattutto nella sorprendente "in Your Name". Un ritorno soprendente che farà la gioia di chi c'era all'epoca e che spero possa catturare l'attenzione delle nuove generazioni per un gruppo al cospetto del quale, tanta immondizia spacciata per 'musica' e' destinata miseramente a impallidire.
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