Avete presente il luogo comune per cui un vocalist è talmente bravo da saper “
far cantare efficacemente un elenco telefonico”?
Ebbene, ritengo
John Waite assolutamente perfetto per la succitata descrizione.
Tentando di rendere un po’ meno
banale la vicenda, diciamo che ci sono degli artisti in grado di condizionare le sorti di un intero gruppo o progetto con la loro personalità straripante, con il loro straordinario magnetismo, con un talento tanto abbagliante da illuminare qualunque situazione creativa, comprese quelle magari in
minimo debito di brillantezza propria.
Se poi tali mattatori hanno pure l’occasione di ritrovarsi con personaggi aventi dotazioni intrinseche analoghe alle proprie, è probabile veder nascere quelle pietre miliari della musica così difficili da eguagliare.
I Bad English (e i Babys, in tono appena inferiore) hanno rappresentato, nell’ambito dell’AOR e dell’hard sofisticato, sicuramente uno di questi “casi” rari con cui è inevitabile doversi poi rapportare per tutta la propria vita, anche se, è bene ricordarlo, nello specifico anche lontano da quella formidabile
congiuntura, ci sono stati momenti di enorme successo, di quelli capaci di
condizionare un’intera carriera.
Tutto questo per affermare che è inutile cercare in questo “Rough & tumble”, le nuove “Everytime I think of you”, “Midnight Rendezvous” o “Looking for love”, un pezzo dall’impatto commerciale analogo a “Missing you”, un’altra “When I see you smile”, “Forget me not”, “Price of love” o “Pray for rain”, un po’ perché i tempi sono diversi e sono leggermente cambiati anche gli orizzonti stilistici del nostro, un po’ perché la
nostalgia è sempre una “cattiva consigliera” e un po’ perché i collaboratori attuali di Waite, pur capaci e preparati come Kyle Cook dei Matchbox 20, non sono verosimilmente
proprio “mostruosi” come quelli del suo migliore passato.
Ciò che è invece rimasta completamente intatta è la laringe di Mr. Waite, travolgente per feeling, intonazione e carica emotiva e sentirla
squassare la semplice e ficcante struttura hard-blues della opener-track del Cd è un vero balsamo per l’anima.
Può dunque una grande voce fare la differenza? Direi proprio di sì, almeno se le canzoni sono comunque di ottimo livello e addirittura, in qualche caso,
azzardano un accostamento a quei capolavori tanto (giustamente) venerati.
“Shadows of love” e “If you ever get lonely”, per esempio, sembrano avere i requisiti per tentare di
sfidare qualcuna delle
hit citate qualche riga fa, affrontandole sul terreno del rock melodico ad ampio spettro e su quello della ballad romantica nobile e seducente, e anche se temo già di sapere il risultato finale di tale
tenzone strenuamente combattuta nel cuore degli irriducibili estimatori del genere, sono certo che non potranno che essere poi giudicate per quello che in realtà sono e cioè splendide canzoni interpretate in modo magistrale.
“Evil” è un’altra traccia affascinante, ha un andamento funky, sinuoso e notturno e pur essendo molto “tipica” possiede un
flavour che potrebbe condurla tra le braccia del mainstream odierno (Maroon 5, James Morrison, Gavin DeGraw?) e la stessa gratificante sorte potrebbe toccare pure a “Love’s goin’ out of style”, che mescola un pizzico della liricità drammatica dei Matchbox 20 con il pop-soul
sornione di Lenny Kravitz, intridendole di classe e buongusto peculiari.
“Skyward” è un grazioso pezzo semi-acustico, con vaghe inflessioni cantautorali tra Dylan, Henley, Petty e Kilzer, che chi ama un certo Waite solista dovrebbe conoscere piuttosto bene, “Sweet Rhode Island Red” è una cover di Tina Turner pregna di tutta l’inevitabile carica r’ n’ r’, “Better off gone” è ancora gradevole ma non incide particolarmente così come l’ancora meno efficace “Peace of mind” (singolari i bagliori psichedelici!), mentre “Further the sky” porta all’attenzione del mondo l’oscura The Gabe Dixon Band, autrice originale di questo minimale
slow di estrazione jazz-blues (suggerito nientemeno che da Alison Krauss!) capace di impressionare grazie alla solita mirabile prova vocale e alla vibrante chitarra di Shane Fontayne (già collaboratore di Springsteen), esecutore davvero intenso, nonché artefice della stesura di “Hanging tree”, bonus inedita a livello ufficiale, animata da una suggestiva, mistica e desolata ambientazione
western, non distante da talune atmosfere di “Temple bar”.
Con il responso positivo sulla riproposizione di “Mr. Wonderful”, bella anche in una versione maggiormente scarna e “sporca”, terminano le mie annotazioni personali ad un programma complessivamente molto appagante, ennesima consacrazione di un interprete immenso, in grado di garantire livelli di coinvolgimento
iperbolici, anche quando il materiale compositivo è talvolta forse un po’ troppo “essenziale” e magari non è costantemente una faccenda di
oro puro a 24 carati.