Sempre più deciso a voler sfondare nel mercato musicale americano, e consolidarsi come band simbolo di un certo tipo di sonorità,
David Coverdale andò incontro a molti cambiamenti durante la prima e seconda metà degli anni Ottanta. Cambiamenti prettamente in negativo, che videro il chitarrista
Mick Moody entrare sempre più in contrasto con il vocalist inglese, ormai diventato a conti fatti unico deus ex machina degli
Whitesnake. Questi dissapori non furono trasmessi in musica, poiché
Coverdale si è sempre dimostrato un gran maestro (e dagli torto) nel circondarsi di musicisti immensamente talentuosi e che, al di fuori di ogni tensione sul rapporto umano, sapevano tradurre in note musicali tutto il loro genio.
Arrivato al punto massimo di sopportazione, non solo con
Coverdale ma anche con i restanti membri della band,
Moody abbandonerà la band, per poi essere sostituito nell’autunno del 1983 da
John Skyes (Thin Lizzy), chitarrista oltre che talentuoso, anche di bella presenza, fattore che per il frontman degli
Whitesnake era fondamentale per esser notati dal mercato americano. Completavano la lineup il mai dimenticato
Cozy Powell,
Mel Galley alle chitarre,
Jon Lord alle tastiere, e
Neil Murray che sostituì
Colin Hodgkinson, anch’egli entrato in disaccordo con le politiche di
Coverdale dopo neanche due anni nella band, e che lasciò nel mezzo delle registrazioni di
“Slide It In”, pubblicato nel 1984.
Lasciatisi alle spalle il sound blues dei precedenti cinque dischi, gli
Whitesnake puntarono su un disco di mezzo prima della definitiva esplosione con
“1987”. Mi piace definire
“Slide It In” un ibrido, ovviamente non nel senso cattivo del termine, ma inteso come una preparazione a ciò che verrà dopo. Attenzione, questo non vuoldire che sia un disco acerbo, o che non ha maturità da parte della band, anzi tutt’altro.
“Love Ain’t No Stranger” si muove su tonalità delicate, ma anche vicine all’heavy metal e a un indurimento del sound. L’album è anche uno dei più espliciti di
Coverdale e soci, basta leggersi i testi di
“Spit It Out” (sputalo se non ti piace) o della Titletrack, pezzi che però musicalmente si reggono su riff molto solidi e ritornelli costruiti in modo da far “colpo”.
Jon Lord mostra ancora una volta la sua maestria in
“Gambler”, ma è con
“Slow An’ Easy” che la band tira fuori il gioiellino del disco, dove fra un inizio con richiami zeppeliani e una parte centrale decisamente coinvolgente, non stupisce come gli
Whitesnake decisero di scegliere questo pezzo come singolo principale.
“Standing In The Shadow” è un altro dei tanti pezzi del Serpente Bianco che viene ricordato poco, con un assolo di
Skyes che evidenzia il suo talento debitore in un certo senso delle varie band 70’s, mentre con le conclusive
“Hungry For Love” e
“Guilty Of Love” la band preme il piede sull’acceleratore consegnando ai fan due canzoni divertenti e decisamente ispirate.
“Slide It In” sarà anche l’ultimo disco dove figurerà
Jon Lord, che tornerà in pochi mesi nei riformati Deep Purple. Il disco registrerà ottime vendite, anche grazie alla rotazione continua su MTV dei videoclip di
“Love Ain’t No Stranger” e
“Slow And Easy”, garantendo alla band inoltre un tour in America affianco a Quiet Riot (all’epoca reduci dal successo di “Metal Healt”) e Dio. Nonostante la vera e propria consacrazione in U.S.A. avverrà poco più tardi,
“Slide It In” resta un disco assolutamente gradevole e interessante per capire anche l’evoluzione che gli
Whitesnake ebbero fra l’inizio degli eighties e la loro seconda metà.