La sezione ritmica dei Secret Sphere e il cantante degli Elvenking,
fieri rappresentanti dell’
heavy/power italico, impegnati in un progetto di puro
hard/sleaze rock … la prima riflessione è che qualche anno fa una circostanza del genere avrebbe probabilmente fatto “gridare al tradimento”.
La speranza è che i tempi siano effettivamente cambiati e che nessuno (neanche quelli che sarebbero ancora
tentati di farlo … e
qualcuno lo conosco!) possa criticare la scelta espressiva di Davide “Damnagoras” Moras, Andrea Buratto e Federico Pennazzato, ancor prima di aver scandagliato attentamente questo “Let the games begin”, adducendo esclusivamente prosaiche questioni di
abiurata lealtà o, dall’altro lato, esibendo timori sulla sincerità “vocazionale” di gente conosciuta finora per frequentazioni artistiche piuttosto differenti.
Se proprio non vi piace la musica patrocinata da Poison, Motley Crue, Skid Row, Ratt e Guns n’ Roses e rivitalizzata da formazioni quali Hinder, Hardcore Superstar, Buckcherry, Steadlür e Vains Of Jenna, ovviamente, non troverete nemmeno negli
Hell In The Club grandi motivi di compiacimento, ma se invece apprezzate questi suoni e l’attitudine da “bad boys of rock n’ roll” che inevitabilmente si portano dietro, non mi lascerei scappare l’opportunità di aggiungere celermente “Let the games begin” tra i propri ascolti quotidiani, accorgendosi, in questo modo, che non c’è nulla di “formale”, poco “sentito” o opportunistico nelle vibranti composizioni dei nostri, i quali, evidentemente, questa “roba” l’avevano già nel sangue da un po’, pronta ad
esplodere prepotentemente alla prima occasione utile.
Una volta accantonata la faccenda “pregiudizi” e certificata la credibilità della situazione, non resta che addentrarsi in questa materia fatta di riffs disinvolti e fendenti chitarristici ustionanti (che ci consentono di nominare l’ottimo Andrea “Picco” Piccardi, completando così la menzione d’onore per tutti gli effettivi del gruppo), ritmiche pulsanti e linee vocali adescanti, il tutto inserito in un clima pregno di
feeling e contrassegnato da carica emozionale a profusione, dove anche la componente
selvaggia,
ricreativa,
vagabonda e
metropolitana è debitamente rispettata, senza mai scadere in pleonastiche pacchianerie.
Il saper scrivere belle canzoni, poi, è il vero “segreto” di ogni band che si rivolga a stili musicali molto codificati e popolari e gli Hell In The Club dimostrano fin dall’opener “Never turn my back” di possedere questa imprescindibile qualità, offrendo al pubblico appassionato quattro minuti scarsi di
rituale goduria hard-rock, gratificata da un refrain istantaneo e da un testo meno banale di quanto si potrebbe credere.
“Rock down this place” fa onore al suo titolo e con un pizzico di “modernizzazione” nel suono sarà senz’altro funzionale a “spaccare” alla grande in ogni luogo dove sarà rappresentata, che si tratti della sacra “alcova” deputata agli ascolti privati o di una (più consona) pubblica ambientazione live.
“On the road”, non a caso scelta per il primo video del Cd, è un vero gioiellino
quintessenziale di sleaze rock raffinato, risoluto e sinuoso e se con “Natural born rockers” si torna a ballare e agitarsi al ritmo frenetico e viscerale di un anthemico rock n’ roll, in “Since you're not here” è un’irresistibile melodia energizzata e vagamente “attualizzata” a prendere il sopravvento, mentre tocca alla scanzonata“Another saturday night”, rilettura di Sam Cooke, risalire fino alla tradizione del soul restituendone una versione adrenalinica e altamente coinvolgente.
“Raise your drinkin' glass” è un altro momento da “incorniciare”, forte di una struttura armonica avvincente e di un ritornello oltremodo trascinante, “No appreciation” picchia duro, ma lascia pochi segni nella memoria, “Forbidden fruit” lusinga con il suo portamento licenzioso e ammiccante, “Star” ricorda agli astanti che anche il più
rude e
disinibito dei rocker non è esente da debolezze sentimentali, “Daydream Boulevard” e la sua febbrile andatura funky, scopre l’anima “nera” del gruppo e “Don't throw in the towel” incrocia Guns n’ Roses, Crue e Metallica, mettendoci la consueta energia, ma scontando qualcosa in fatto di smalto e ispirazione.
Competenza, buon gusto, vivacità e fervore genuino rendono la prima prova degli Hell In The Club un prodotto di grande valore, nella scia luminosa e
insidiosa dei “cattivi” maestri di ieri, in grado di mettere in seria “difficoltà” anche i migliori discepoli nei nostri giorni, e ci consente di auspicare con forza una prosecuzione di tale “esperimento”, magari, per non fare torto a nessuno, da sviluppare in parallelo ai già noti e meritori progetti principali.