Cosa sta succedendo agli
Evergrey? Da un paio d’album, la band che tanto ci ha fatto emozionare negli anni passati sembra la copia sbiadita di ciò che era. Cambi di line-up, attitudine sempre più Mtv-esca e (apparentemente) meno sincera, seppur ancora ottimi quanto a resa live… C’è qualcosa che non quadra, decisamente. E se, a tutto questo, aggiungiamo l’ennesimo, drastico stravolgimento di line-up, che vede superstiti solo il mainman Tom Englund ed il tastierista Rikard Zander, forse riusciremo a trovare qualche motivazione al perché questo “
Glorious Collision” sia, a parere di chi scrive, un mezzo passo falso.
Eppure, navigando sulla homepage della band, troverete ben evidenziati quotes da capogiro, provenienti da riviste e webzines di mezzo mondo, tutte inneggianti al capolavoro, all’album dell’anno, all’ennesimo disco superbo di una band perfetta… Dove sta l’inghippo?
Il nuovo album, insomma, soffre a mio avviso di una preoccupante caduta di ispirazione, abbinata ad una tendenza al
radio/video-friendly che tanti danni ha fatto nel nostro genere preferito, e che sembra aver afflitto anche Tom, che mai come in passato si prodiga a creare brani-fotocopia, buoni per Headbangers’ Ball o quel cacchio che passa adesso, ma che suonano falsi e fintamente sofferti, sia nel timbro della voce, sia nell’arrangiamento, che a questo punto oso definire, con un ardito giro di parole,
emo-friendly… Il marchio di fabbrica della band, quel senso di tragicità e drammatico che riusciva a permeare ogni release fino a “
The Inner Circle”, sembra ora asservito alla logica del “
facciamo il disco tragicone e tristone, che va taaanto di moda”, dimenticandosi di soppalcare il tutto con un’adeguata struttura musicale: ecco che nascono canzoni come “
You”, il primo singolo estratto “
Wrong” ed un’altra manciata, che mancano di anima, di quel qualcosa che te le faccia distinguere l’una dall’altra. L’attitudine più precipuamente metal e “scandinava” della band si conserva ancora solo in sporadici episodi, come l’opener “
Leave it Behind Us” o “
It comes from Within”, quest’ultimo decisamente il pezzo più riuscito del lotto. Nel mezzo, un numero fin troppo elevato di capitoli deboli, trascinati e spompati. Ed è un gran peccato, per una band che, a mio avviso, aveva nella personalità la vera arma in più che la distingueva dalla massa.
Speriamo dunque vivamente in un ravvedimento di Tom e soci, perché la strada intrapresa sembra inesorabilmente condurre ad un limbo di noia e di una
mediocritas ben poco
aurea.