In un momento “storico-musicale” che incensa formazioni come Airbourne e promuove emergenti come ’77 e Charm City Devils, perché riservare un trattamento diverso per i
Sideburn? In fondo, fanno tutti parte di quella schiera di artisti in cui scorgere una scintilla di creatività rappresenta un’impresa titanica, giacché la loro proposta è sostanzialmente votata al verbo degli AC/DC (e dei Rose Tattoo, se proprio vogliamo essere precisi), sovrani assoluti
dell’hard n’ boogie n’ blues n’ rock n’ roll.
Eppure qualcosa mi dice che i nostri svizzeri, da considerare ormai dei veterani del genere, finiranno per passare
oltremodo inosservati nell’attuale soffocato e “soffocante” mercato discografico.
Sarebbe davvero un comportamento iniquo, poiché almeno quanto considero sopravvalutati i nomi poch’anzi citati (tre dei tanti, tra l’altro, e senza aver ancora avuto l’opportunità di testarli dal vivo, ambito che a quanto pare li vede particolarmente
dirompenti), ho trovato questo “Jail”, sesta fatica discografica degli elvetici, un ascolto tutto sommato gradevole, assolutamente sprovvisto di carisma e personalità, ma sollevato dalla presenza di canzoni dignitose, scritte con un certo gusto e una discreta dose di feeling.
Niente che non sia già stato fatto, e pure un po’ meglio, da Georgia Satellites, Kix, Cinderella, Rhino Bucket e Dirty Looks, senza dimenticare i padrini Krokus (e gli Accept, altra plausibile influenza dei Sideburn), ma le evidenti carenze ispirative “proprie” del gruppo non sviliscono completamente l’impatto di un Cd che si lascia ascoltare con piacere, soprattutto in quei momenti dell’esistenza in cui si ha bisogno di forme di “distrazione” semplici, prive di frivolezze e poco impegnative.
La voce di Roland Pierrehumbert, con il suo timbro arcigno e “caldo”, frutto di una piacevole interpolazione Scott-Halford, sovrintende con abilità un manipolo di onorevoli ed affiatati musicisti in grado di suscitare la netta impressione di “crederci” sul serio, ed è forse per questo che anche i pezzi più “spudorati” (“Live to rock”, "Devil and angel”, “Rock'n'roller, “Lazy Daisy”, "The red knight” …, anche se altrove non è che si “contengano” troppo …) vengono accolti con benevolenza, mentre tocca alle vibranti "One night stand” e “Chase the rainbow”, all’ardore
blues-southern di “Long beard and boogie” (con un pizzico di ZZ Top) e della strascicata e polverosa “Creedence vibe”, o ancora al dinamismo anthemico di “Good boy” e "Kiss of death” (un po’ alla Judas Priest … del resto una prima incarnazione della band si chiamava Genocide …), rappresentare probabilmente i momenti maggiormente “impressionanti” di una maniera di fare musica “antica” e “standardizzata” e nondimeno ancora capace di riservare buone vibrazioni.
I Sideburn sono innegabilmente degli emuli, di quelli che sanno, però, il fatto loro e come tutte le band di questo tipo dovrebbero essere accolti dal pubblico, a dispetto della mancanza di quell’
hype che nemmeno la competente produzione dell’esperto Beau Hill (ormai né “qualificante”, né particolarmente “attraente”) può più contribuire a garantire.
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