Di “successi”, anche piuttosto significativi, nella loro ormai ultradecennale carriera, ne hanno ottenuti parecchi, ma rimanendo sostanzialmente confinati nell’ambito
underground, sfiorando solamente quella visibilità “superiore” che meriterebbero ampiamente.
Sono gli
Atman di Lucca e fanno parte di quelle situazioni capaci di farmi
alterare su come vengono gestiste le “cose artistiche” in Italia.
Anche senza tirare in ballo annose discussioni sulla “meritocrazia” (un argomento sempre di grande attualità, un po’ a tutti i livelli) mi sorprendo (ancora, alla mia “veneranda” età!) di come una band come questa non abbia la stessa considerazione riservata a Negramaro, Modà (
vabbè) e pure a “mostri sacri” del calibro di Afterhours, sul versante nazionale, o a Placebo, Ours, Foo Fighters e Manic Street Preachers, su quello internazionale.
Eppure hanno tutto quello che serve, e in questo nuovo disco sembrano aver voluto condensare un po’ tutte le loro migliori peculiarità, conservando la preziosa distinzione
melodico / malinconica e recuperando al contempo un pizzico di maggiore visceralità ed essenzialità, con minore attenzione al puro dettaglio stilistico.
Con l’ardore e il
minimalismo di una formazione ridotta a tre elementi, gli Atman consegnano a “Il Destino e la speranza” la versatilità espressiva di un gruppo “maturo” e coeso, capace di affrontare senza cedimenti vibranti brani strumentali (in apertura e chiusura dell’albo), riservare un’analoga intensità emotiva sia attraverso l’italiano e sia tramite l’inglese, illuminare le sue composizioni con quella oculata e sofisticata (ascoltare la bellissima “Promenade des Anglais” e il suo arrangiamento) miscela di rock, noise, grunge e pop, così prodigo di riferimenti (gli “antichi” Cure, REM, Pixies, Alice In Chains – celebrati vividamente in talune vocals di “Ti odio” - ma anche certe cose dei Muse – sintomatici in questo senso “Cadillac”, dove fanno capolino addirittura pure i GNR e l’enfatica “The sin”) eppure così lontano da un’evocazione di “fantasmi” autorevoli sterile ed eccessivamente semplicistica.
Piace ancora una volta, inoltre, il sagace approccio lirico (così importante soprattutto quando è la nostra lingua ad essere quella selezionata), in grado di garantire un sollecito riscontro empatico (l’immediatezza di “Rimpianti”, è, in questo senso una sorta di manifesto di tale attitudine, sostenuta peraltro da un’intensa struttura armonica), manifestandosi né troppo banale (neanche quando tocca “pericolosi” temi di malessere
esistenzial-sentimentale) né eccessivamente contorto, offrendo un'altra “arma” importante alle possibilità di affermazione su vasta scala del gruppo, che a questo punto non può proprio
più tardare ad arrivare.
La prossima volta che vi sintonizzerete sui network musicali audio e video, troverete, ne sono
sicuro, tanta della loro musica e annunci entusiasti sul loro
boom “commerciale”, segno
tangibile di un distacco da quel ruolo di
cult-band senz’altro gratificante e tuttavia ormai troppo riduttivo per chi ha tutto questo talento
autentico pronto per essere condiviso.
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