Nemmeno le celebri vette delle Alpi svizzere riescono ad arginare efficacemente il morbo del “ritorno” ed ecco che anche i
China, autorevoli rappresentanti dell’hard elvetico, finiscono per esserne contagiati.
“Light up the dark” è il risultato finale di tale attacco
nostalgico e anche se appare chiaro che, per molte ragioni, rinverdire i fasti di “China” e “Light in the sky”, sarà un’impresa di difficile realizzazione, bisogna ammettere che la band, in una configurazione leggermente rinnovata, non ha perso il “tocco” ed è ancora capace di scatenare brividi di approvazione tra i sostenitori “storici” dell’hard / class rock, presentandosi, altresì, con un suono “credibile” anche per le nuove generazioni.
Nulla di particolarmente “sorprendente” (e, per certi versi, potrebbe essere anche una “buona notizia” …), sia chiaro, ma sicuramente una piacevolissima oretta (scarsa) di musica ricca di senso melodico e pure di un certo brio compositivo, i quali aggiunti alla “prevedibile” accuratezza tecnica e a una produzione attuale ed energica (merito di Chris Johnson, già all’opera con Buckcherry ed Evanescence, e Michael Parnin, collaboratore di Steve Stevens e King’s X), non possono che fornire un quadro complessivo prodigo d’impressioni positive.
Dodici canzoni (alcune delle quali già incluse come inediti nel
best of del 2008) tutte piuttosto gradevoli, dunque, che hanno nella title-track (un vitaminico
hard-anthem dalle cadenze blues, tra bagliori di Whitesnake, Poison e Tesla), nella vagamente Aerosmith-
esque “She's so hot”, negli influssi AOR-
west coast di “Lonely rider” e poi ancora nelle romanticherie acustiche di “Gates of heaven” (Bon Jovi
meets Firehouse) e nelle ariose vibrazioni di “Stay” (un po’ alla Warrant) i loro momenti migliori.
A breve distanza arrivano, poi, il dinamismo ruffiano e “familiare” di “Girl on my screen”, il clima spensierato e
rootsy di “On my way” (cui contribuisce nientemeno che Mr. Marc Storace, sodale di vecchia data della band), le armonie seventies di “Right here, right now” e le scansioni frenetiche di “Trapped in the city” (belli i lievi effluvi orientaleggianti), mentre tocca all’arrangiamento “attualizzato” di “Hey yo”, alla scura e
grungy “Deadly sweet” e, in parte, pure al
groove di “Flesh and bone”, apportare qualche piccola “novità” ad un canovaccio stilistico abbastanza rigoroso e riconoscibile.
Con un plauso particolare per il singer Eric St. Michaels, sempre molto “dentro” le sue pertinenti interpretazioni, si esauriscono le note di “cronaca” del Cd, ma la breve dissertazione non può proprio escludere un caloroso bentornato ai China, la dimostrazione tangibile, se mai qualcuno avesse qualche dubbio, che l’hard rock svizzero non è esattamente un’
invenzione dei Gotthard.
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