Giunti alla pubblicazione del quinto album in studio, “Transmigration of consciousness”, i polacchi
Nomad falliscono nuovamente l’ennesimo salto di qualità della propria carriera ultra decennale.
La band guidata da Seth, già secondo chitarrista live dei connazionali Behemoth, punta su un lavoro sì compatto, ma purtroppo privo della verve necessaria a scuotere le membra della maggior parte dei deathster in circolazione.
Cominciamo col dire che la presenza dei numerosi intro, praticamente uno per canzone come già fecero a suo tempo i Pestilence con “Spheres”, non fa altro che spezzare il ritmo dell’ascolto invece di accompagnare per mano l’ascoltatore come doveva essere nelle intenzioni del gruppo polacco.
Si nota inoltre che i brani “veri” si attestano su un mid-tempo costante che, invece di affettare o schiacciare con dinamiche serrate, si attorcigliano su se stessi con la costante ripetizione del riff portante senza arrivare a graffiare o incidere come ci si aspetterebbe da una death metal band rodata.
E quando la noia entra dalla porta principale è difficile farla uscire dalla finestra: credo che sarete d’accordo con me nel giudicare “Pearl evil” come il punto più basso di “Transimigration…”, simbolo di tutto ciò che non va di questo lavoro.
Si capisce così perché i riflettori della scena polacca sono da anni puntati su altre realtà, dai Behemoth ai Vader, dai Decapitated agli Hate giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente, piuttosto che sui Nomad.
Band che, par mancanza di voglia o di capacità, dimostra di non essere in grado di tirare una decisa spallata all’estrema staticità del loro songwriting e di saper uscire dai confini underground.
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