Otto anni, tanti ne sono passati dall’uscita di “Heretic”.
Otto anni sono tanti, tantissimi per il trascorrere delle cose serie della vita, ma sono ancora di più per quello che è il music business abituato da sempre a correre e fagocitare sé stesso.
Otto anni di attesa per giungere all’attesa lettera “I” della discografia dell’angelo morboso.
Otto anni passati inutilmente ad attendere
“Illud Divinum Insanus”.
Definire “Illud…” una uscita imbarazzante rende poco l’idea che mi sono fatto durante l’ascolto delle dieci tracce (più intro) che lo compongono.
I
Morbid Angel han pensato bene di giocare con l’elettronica inserendo l’elemento industrial all’interno del loro sound. Il motivo preciso non lo conosco. Forse l’han fatto per evitare di esser tacciati di autoreferenzialismo, per non esser accusati di aver composto un album fotocopia dei precedenti, ma a conti fatti non è tanto l’aver deciso di introdurre l’elettronica all’interno del loro sound a lasciare interdetti, quanto il modo in cui essa è suonata e gestita in “Illud”.
Cominciamo dal dire che l’album è spaccato in due: quasi la metà del minutaggio che lo compone è occupato dai quattro brani “incriminati” mentre la restante parte di “Illud..” è caratterizzata da un songwriting in qualche maniera più ortodosso e legato al passato della band flordiana.
Se i sample utilizzati dovevano in qualche misura incattivire o indurire il suono dei “nuovi” Morbid Angel, si può dire che l’esperimento è fallito.
Canzoni esasperatamente lunghe e prolisse che dicono tutto dopo un paio di minuti e che invece si protraggono per oltre il doppio se non addirittura il triplo (v. “Destructors vs Earth: attack!”) durante le quali la tentazione di premere il tasto forward del proprio lettore diventa una esigenza e non una semplice opzione.
Probabilmente molti di voi ricorderanno il remix industrial di alcune tracce di “Covenant” effettuate dai Laibach nel 1994 e finite poi nell’omonimo EP, esperimento piacevole che all’epoca della sua uscita si muoveva in territori ancora da svilupparsi pienamente.
Bene, non fate l’errore di accostare le due cose, perché non è l’anacronismo il nodo della questione, bensì il modo maldestro in cui Trey & Co. hanno trattato la materia compiendo il classico passo più lungo della gamba.
Analizzando invece i brani più in linea con la produzione passata della band, si può dire che purtroppo graffiano poco e il ritorno del vocione cavernoso, ma a tratti imbolsito, di Dave Vincent dietro il microfono non aggiunge loro quella marcia in più che era lecito aspettarsi.
Pur non gridando al miracolo, le varie “Blades for Baal”, “Nevermore” (suonata a profusione durante questi anni in sede live e scelta come singolo apripista) e “Beauty meets beast”, si lasciano ascoltare e idealmente collegano “Illud…” alle lettere “G” e “H” dell’alfabeto dell’angelo morboso.
L’assenza di Pete Sandoval dietro le pelli non deve esser vista né come una aggravante, né una scusante. Se le scelte a monte sono discutibili, non è la presenza o meno di un ottimo batterista a fare la differenza e a portare l’album ad un livello di sufficienza.
A conti fatti “Illud…” riesce bene in una unica cosa: il far sembrare i fasti dei primi anni 90 quando i Morbid Angel erano al massimo della popolarità, ancora più lontani e distanti nel tempo.
Il resto è silenzio.