Giovani, carini e …
rockettari. Un accostamento abbastanza
singolare, dal momento che a vederli difficilmente si sarebbe portati ad immaginare che tra i loro principali modelli ci sono Bon Jovi, Black Crowes e Aerosmith (assieme agli Oasis, forse leggermente più prevedibili). Registrato, non senza una notevole soddisfazione, il dato che un certo tipo di rock non è
solo una questione da maturi
nostalgici, arriviamo all’analisi del disco del vivo dei
GoodWines, la formazione milanese colpevole di tutte queste, un po’
futili, considerazioni introduttive.
Autore di un albo d’esordio (“Just a little shaboo”) il cui programma è completamente recuperato per questo show svizzero, il sestetto meneghino si dimostra, anche nella difficile prova live, un credibile “divulgatore” di generi tradizionali come rock, AOR, blues, southern, soul e funky presso l’attuale
MTV generation, verosimilmente non troppo avvezza alla “storia” del genere e probabilmente molto attenta agli aspetti squisitamente “estetici” e “trendistici” della questione (a ben vedere le cose non erano tanto diverse nemmeno ai tempi d’oro di Bon Jovi e Europe … erano le “mode” ad essere un po’ differenti …).
Nonostante l’importante “ruolo” di potenziale “infiltrato” tra la
progenie dell’mp3, sarebbe ingeneroso non considerare attentamente le specifiche qualità artistiche di un gruppo davvero sorprendente dal punto di vista esecutivo, impeccabile in tutti gli effettivi e favorito dalla pregiata voce di Max Castellani, un’intrigante interpolazione tra le laringi di un imberbe Jon Bon Jovi e quella di un
motivato Liam Gallagher.
Anche a livello di attitudine, prospettiva imprescindibile di queste lande sonore, i nostri offrono buone garanzie, dimostrando di aver assimilato piuttosto bene la lezione dei “maestri” e di averla saputa integrare con un gusto fresco e “moderno” che potrebbe
addirittura rischiare di fare proseliti pure tra i fans di gente come Beady Eye (nuova “incarnazione” degli Oasis), Maroon 5, Jet e James Morrison.
A importunare “l’idillio” di tanta sincera ammirazione arriva, però, una tenue sensazione di
freddezza, un vago senso di “asettico” che contraddistingue il quadro complessivo, come detto non particolarmente intenso eppure abbastanza “preoccupante” ancor di più in una situazione dove l’
empatia tra pubblico e musicisti dovrebbe essere massima.
Brani come “Set me free” e “This way in” (una sorta di Black Crowes edulcorati), “The lovers” (vivace numero Bon Jovi-
iano qui impreziosito da un raffinato tocco
pomp), “Come on sister” (sentita ed enfatica creazione elettro-acustica, con il tastierista Premoli in evidenza) e “Let me take you out tonight” (una vibrante ballad Aerosmith-
esque di notevole suggestione) o ancora le digressioni in clima
brit-pop espresse in “Northern star”, “Love revolution” e “Someday” rappresentano la dimostrazione tangibile di una capacità compositiva di rango superiore, ma in generale (compreso il breve accenno alla celebre “Walk this way”) aleggia l’impressione di un’irreprensibile esposizione limitata alla superficie dell’emotività, a cui manca, per il momento, un pizzico di quella “sporcizia” passionale utile a conquistare in maniera risoluta, come auspicabile, i piani più profondi e gratificanti della sfera sensoriale.
La risposta al
provocatorio quesito evocato dal titolo del disco non può, dunque, essere
completamente affermativa e per diventare una “testa di serie” sarà necessaria un’ulteriore applicazione soprattutto nel settore “intensità espressiva”, tuttavia è chiaro che il “
tempo è dalla loro parte” (se non erro lo diceva
qualcuno che di queste cose se ne intende!) e in periodi di diffuso riciclaggio di “vecchie glorie” (spesso encomiabile, ma questa è un’altra storia), scoprire che questi suoni sono ancora una cosa da “
ggiovani” non può che essere una bella notizia.