Tornano alla ribalta due dei più arzilli veterani della scena rock internazionale, Glenn Hughes e Joe Lynn Turner, e lo fanno pubblicando un album d’indiscutibile qualità e spessore, pur segnato da qualche piccola ruga simile a quelle che ormai scolpiscono i volti del duo di maturi musicisti.
Un lavoro che in parte vive dell’esperienza e del carisma di personaggi che hanno scritto pagine importanti dell’epopea hard rock, e che ancora oggi sono all’altezza di proporsi con adeguata convinzione e dignitosa freschezza, un buon stato di forma che vanifica le tesi di coloro che giudicano la validità della musica in base ai dati anagrafici o alla presenza delle diavolerie tecnologiche.
Innegabile che nel secondo capitolo del progetto HTP vi siano alcuni episodi di maniera, giocati più sul mestiere dei protagonisti che sull’ispirazione realmente illuminata, ma ancora più numerose sono le canzoni brillanti che faranno la gioia dei fans della corrente classica e tradizionale dell’hard.
Eccellente l’apertura affidata a “Revelation”, magistrale esempio di scuola seventies targata Purple, marchio inevitabile vista la carriera dei due cantanti, seguita dal solido e caldo groove di “Alone I breathe” brano privo di picchi particolari ma eseguito con la perizia inconfondibile che molti emulatori pagherebbero per avere.
Rilevante nel contesto generale il contributo di J.J. Marsh, chitarrista elegante e misurato, il quale con i suoi assoli nitidi e pungenti rafforza episodi meno corposi quali “Lost dreams” o “Sofia”, ed è indispensabile per il successo delle canzoni di assoluto rilievo come la rocciosa ed energica “Goddbye friday” e l’incantevole “Hold on”, più vicina alle avvolgenti atmosfere Whitesnake dove classe, pathos, vocals inconfondibili e solismi strepitosi s’intrecciano con un’intensità d’altri tempi, ben distante però dal puerile esercizio ad uso e consumo di inguaribili nostalgici.
Meno coinvolgente la venatura melodica che affiora in certi cori e ritornelli ammiccanti, visto che sotto la lucida cromatura professionale mostrano un po’ di stanchezza, evento comunque umano e giustificabile per chi fa musica ad alti livelli da tre decenni.
Romantici slow come “Time and time again” e “Burning the sky” non mi trasmettono quelle sensazioni di tragicità e forza evocativa che mi attendo dalle tracce intime e riflessive del filone hard, ma chi evita questo tipo di sottigliezze li scoprirà ugualmente momenti positivamente piacevoli.
Hughes, Turner e compagni, e citiamo anche la presenza di Steve Vai e Chad Smith (Red Hot Chili Peppers) nella discreta “Losing my head”, garantiscono ancora una volta buona musica senza tempo e pur senza raggiungere vertici strepitosi impartiscono una lezione di carattere e longevità alle nuove leve.
Non è ancora stata scritta un'opinione per quest'album! Vuoi essere il primo?
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?