Consueta “parata di stelle” per il nuovo albo solista di
John Wetton, uno di quegli artisti a “tutto tondo” la cui enorme qualità non può proprio essere messa in discussione.
Per lui parlano una carriera di oltre quarant’anni di prestigiosa e affermata
sussistenza musicale (Family, King Crimson, Roxy Music, Uriah Heep, U.K., …), culminati nel
supergruppo Asia e proseguiti con il progetto Icon insieme all'amico Geoff Downes, poco prima che insieme agli altri membri originali i due ricostituissero il
team artefice delle immarcescibili “Heat of the moment” e “Only time will tell”.
Una parabola artistica che gli consente di contornarsi di “vecchi” e “nuovi” amici per solcare le immense possibilità espressive della sua voce attraverso un percorso piuttosto eterogeneo, che contempla atmosfere più istantanee di marca “asiatica”, soluzioni “iconisticamente” intimiste e melodrammatiche, leggeri tocchi
prog e
hard, nonché momenti di magica estrazione
folk, per un lavoro piuttosto magnetico e convincente.
Forse, a ben analizzare il
personale coinvolto era lecito aspettarsi qualcosa di più, ed è altresì abbastanza agevole individuare alcune disposizioni compositive non esattamente “travolgenti”, ma francamente sono sufficienti la regale ugola da “one in a million” di Sir. Wetton e un numero comunque rilevante di ottime canzoni per ritenere ampiamente soddisfatta la propria brama di musica
superiore.
Scalpita l’opener “Lost for words”, con la chitarra di Steve Morse a cesellare da par suo, fluttua la
title-track, tra energia, dramma e sublimazioni tecno-prog-rock, così come “The last night of my life” frizza di armonie non lontane dal
Yessound immortalato nella sua tecnologica esposizione
ottantiana.
Le geometrie del refrain di “We stay together” tentano con fortuna alterna di replicare le
smash-hit degli Asia, non dispiace l’orchestrazione un po’ stucchevole di “Don’t misunderstand me”, lascia perplessi la melodia inoffensiva di “New star rising”, mentre tocca alle venature
blues di “The human condition” riprendere a scaldare il cuore, ma se volete qualcosa di veramente “pericoloso” per i vostri sensi, abbandonatevi con fiducia al fatato afflato celtico di “Goodbye Elsinore”, reso ancora più intenso negli intarsi acustici di “Steffi’s ring”, oppure all’imponente impatto evocativo di “The devil and the Opera House” (brano scritto con Richard Palmer-James, coadiutore dei King Crimson, e impreziosito dal violino di Eddie Jobson, collaboratore di Curved Air, Roxy Music, U.K., Jethro Tull e Frank Zappa ...), vedendo completata l’opera di
soggiogamento con la conclusiva “Mighty rivers”, una gemma di rock sinfonico (realizzata con il contributo della Seattle Symphony Orchestra), in cui la sontuosa laringe della mia “amata” Anneke Van Giersbergen si fonde magistralmente con quella di Wetton, consolidando un appassionante sodalizio già sperimentato ai tempi di “Rubicon”.
Pur inferiore al favoloso predecessore “Rock of faith, “Raised in captivity” rappresenta l’ennesimo capitolo positivo di questa lunga e bella “storia”, capace di regalarci, ne sono certo, tante altre pagine emozionanti …
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