Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento di confrontarsi con la band che in assoluto amo di più. Sono legato ai
Dream Theater per un sacco di motivi, musicali e personali, con i quali eviterò di tediarvi, ma era giusto mettere in chiaro le cose: non avete a che fare con un recensore totalmente imparziale, ma nemmeno con uno che non vede l’ora di distruggere questa band (cosa che a volte sembra essere lo sport nazionale) oppure disposto ad osannare le schifezze pur di non tradire il proprio credo. Dunque cercherò di riordinare le decine di input che i ripetuti ascolti di questo disco mi hanno regalato, facendo anche un track-by-track, doveroso soprattutto perché mi sono trovato al cospetto di un disco molto eterogeneo, che va decisamente approfondito.
Chiariamo subito anche il voto, sul quale vi invito a non soffermarvi troppo, dato che proprio a causa dei tanti elementi diversi che caratterizzano
A Dramatic Turn Of Events non rappresenta nient’altro che la media aritmetica dei giudizi dati alle singole canzoni. Vediamoli subito, rimandando alla fine tutte le altre considerazioni.
ON THE BACKS OF ANGELS – 7 Una canzone arcinota, uscita ormai più di un mese fa. Intro arpeggiata in cui tastiera e batteria crescono fino a giungere al riff portante, che pur non essendo trascendentale si presta a giochi progressivi di un certo livello. Buona la strofa e buono il pre-chorus, quello che un po’ manca è un ritornello all’altezza: il refrain rimane infatti incastrato nella mediocrità e non riesce a fare particolarmente breccia. Interessanti le scorribande di Rudess sotto tutto il brano, così come l’ottimo assolo di Petrucci. Discreto il finale strumentale. Alla fine rimarrà tra le migliori canzoni del disco.
BUILD ME UP BREAK ME DOWN – 4 Questa rischia seriamente il premio di peggiore canzone della storia dei Dream Theater. Intro “truzza” di tastiere e chitarre effettate, solito riffone cattivo, strofa con una fastidiosa voce filtrata, refrain che ancora una volta tenta di conquistare con la linea melodica ma manca completamente il bersaglio. La cosa peggiore è tuttavia rappresentata dalle parti in cui LaBrie ripete ossessivamente “Build Me Up” su stacchi che sembrano messi lì un po’ a caso come riempitivo. La parte dei soli (se così si può chiamare, visto che dura meno di 30 secondi) è trita e ritrita, poi di nuovo ritornello e inutile finale d’archi.
LOST NOT FORGOTTEN – 6 Ecco qui il brano con cui i nostri prodi ragazzoni volevano stupirci, cosa che gli riesce solo parzialmente e non sempre in positivo. Il breve inizio di pianoforte fa ben sperare, così come l’intro (dove si sente parecchio la mancanza delle rullate di Portnoy), mentre il riff potrebbe essere (facciamo i bravi e non pensiamo alla mancanza di idee) un’autocitazione da
Fatal Tragedy. Pronti via ecco il primo bridge a 300 all’ora, notevole ma un po’ fine a sé stesso, introdurre a un cantato ancora una volta molto più efficace nella strofa e nel
pre piuttosto che nel ritornello, caratterizzato questa volta da continui cambi di tempo che quantomeno contribuiscono a tenere desta l’attenzione. Più aperta e solare la seconda strofa, mentre la sezione dei soli è di grande spessore tecnico, variegata ed efficace, soprattutto quando la velocità diminuisce: Petrucci in grande spolvero e Rudess ancorato nuovamente a suoni un po’ troppo moderni, almeno per i miei gusti. Si lascia ascoltare, ma poteva essere strutturata meglio e resa meno confusa.
THIS IS THE LIFE – 6 La prima ballad inizia con una strofa carina e cullante, che cresce a poco a poco con l’ingresso dei vari strumenti. Assente un ritornello da ricordare, ma non sarebbe poi una grossa pecca se LaBrie osasse qualcosa di più, invece di mantenersi nel tranquillo limbo dei propri sospiri. Particolare l’assolo, dopo il quale finalmente il buon James prova a salire un po’ più in alto, anche se nel “gran finale” lascia completamente spazio ai compagni senza incidere. I Dream Theater ci hanno abituato a ben altre ballate, questa sembra più un intermezzo.
BRIDGES IN THE SKY – 7 Lunga intro “mistica”, che spiega perché in origine il titolo di questo pezzo doveva fare riferimento a uno sciamano e che precede un riffone cattivissimo, anche in questo caso usato ed abusato negli ultimi anni da Petrucci, che supporta una strofa che puzza di già sentito. Finalmente, però, questa volta ci troviamo al cospetto di un ritornello di un certo livello, subito ricacciato indietro dal ritorno della crudele settima corda. Notevole il bridge dopo il secondo refrain, che porta alla parte strumentale. Anche qui, il territorio in cui si muove la band è già stato esplorato in passato, tra scale arabe e quant’altro, ma il risultato stavolta è decisamente buono. Chiusura di nuovo sul ritornello e finale così così. Piccola nota di colore, perché qualche sorriso in effetti scappa: la voce dello sciamano sembra essere presa in prestito dagli effetti vocali usati dagli
Elio e le Storie Tese.
OUTCRY – 6Se la canzone precedente mi aveva fatto sperare in un cambio di rotta per il disco, l’inizio di Outcry conferma la mia impressione, salvo poi finire per qualche secondo ingabbiato da un suono di tastiera veramente innervosente e inutile. Immancabile come-back dello stoppatone per la strofa, che ben presto si apre efficacemente per poi rallentare improvvisamente prima del buon refrain. Parte strumentale sbrodolona, prolissa ma soprattutto appena sentita in Bridges In The Sky: sinceramente avrei preferito vedere concentrate le scorribande in un solo pezzo e sentire la band concentrata nel far rendere al meglio le canzoni più che le proprie mani sullo strumento. Per me sentirli suonare rimane un piacere estremo e anche qui dentro ci sono delle cose che provocano estremo godimento, ma le esagerazioni stancano e questo pezzo alla fine assume i tratti di un collage, il che di certo non giova al risultato finale. Inizio a innervosirmi: troverò una canzone in cui la parte strumentale e la linea vocale siano entrambe veramente da ricordare?
FAR FROM HEAVEN – 7,5 La seconda ballad è di gran lunga più efficace della prima. Piano, voce e archi creano un’atmosfera decisamente gradevole, che la cullante melodia della linea vocale e i sospiri di LaBrie rendono finalmente speciale e degna del nome scritto sulla copertina del CD. In fin dei conti anche questo pezzo può essere visto come un intermezzo, ma il risultato finale è ottimo.
BREAKING ALL ILLUSIONS – 8 Fin dall’inizio si capisce che siamo completamente su un altro pianeta rispetto alle song precedenti: splendida intro, strofa in lento crescendo e ritornello pienamente da Dream Theater, che precede l’arrivo di un bellissimo riff nervoso che ben si accompagna al cantato e riporta prima all’intro poi al refrain. Dodici minuti però vanno riempiti, quindi è inevitabile trovare una parte strumentale. I timori del ripetersi delle sbrodolate precedenti, anche se forse qualcosina si poteva limare, sono fortunatamente spazzati via: stavolta la parte centrale è varia, ispirata e assolutamente all’altezza di tutto il resto del brano. Bellissimo il solo di Petrucci sulla parte lenta e bellissimo il finale. Grazie al cielo inizio a ricordarmi chiaramente perché amo i Dream Theater.
BENEATH THE SURFACE – 8,5 Oh yes, baby, ci siamo nuovamente alla grande. Il ritmo rallenta e tutto ciò che di buono c’è da dire viene detto, grazie a un brano in cui linea vocale e arrangiamenti si sposano alla perfezione. La melodia è accattivante, il solo molto gradevole e il finale ad effetto non manca di emozionare. Davvero un’ottima canzone, che insieme alla due precedenti va a risollevare in maniera decisiva le sorti del disco.
Dunque, se tutto il lavoro fosse stato come gli ultimi tre pezzi avremmo potuto fare tutta una serie di discorsi sul “nuovo corso” e dire tante belle cose contro il lupo cattivo Portnoy. Invece non è colpa sua: i problemi ormai cronici dei Dream Theater sono soprattutto altrove.
Iniziamo da Rudess, che non manca ogni giorno di ricordarci quanto è bello scrivere canzoni liberi dalla mannaia dell’ex drummer che spadroneggiava e tarpava le ali a tutti quanti. Bene, sentendo quello che Jordan è riuscito a buttare dentro questo album, mi viene solo da pensare due cose: la prima è che Portnoy la mannaia avrebbe dovuto usarla direttamente su Rudess e la seconda è che ho davvero paura di quanto possa trapanare gli ammennicoli dal vivo senza alcun freno. Suoni che non stanno né in cielo né in terra, spesso e volentieri invasivo e fuori luogo: se questo è realmente lo spazio che Rudess reclamava sono davvero contento che finora nessuno glielo aveva concesso. Mi spiace, ma ad eccezione delle ballad e di pochi frangenti, la prova del tastierista è veramente da bocciare.
Continuiamo con Mangini, una macchina da guerra precisa e poderosa. Il problema è che i pezzi, scritti da Petrucci programmando una drum machine, sono stati registrati senza aggiungere nulla di personale. Non ne conosco il motivo, probabilmente è arrivato un ordine dall’alto oppure la fretta è stata determinante, ma il lavoro dietro le pelli, pur essendo ineccepibile (e a tratti devastante) risulta freddo e manca totalmente di fantasia, soprattutto sugli stacchi tra le diverse sezioni dei brani. Ci sono alcuni passaggi di questo disco che in mano a Portnoy sarebbero diventati qualcosa di fantastico, invece in tanti frangenti sembra di avere a che fare ancora con un computer che tiene il tempo, cosa inaccettabile per un album del genere.
Altra pecca decisamente ingombrante è la prestazione di LaBrie, che convince davvero in poche cose e quasi sempre solo sui pezzi lenti, dove può ancora sfruttare le aspirazioni da piacione per dare i brividi. Per il resto, mai un azzardo, mai qualcosa che strappi un applauso: le linee vocali rimangono praticamente sempre su toni medi, senza sussulti e senza particolare ricerca di soluzioni nuove.
Chiudiamo l’analisi delle cose che non funzionano con il songwriting. Tante buone idee ci sono, è innegabile, ma tantissime cose già sentite vengono riproposte senza pudore alcuno, soprattutto nelle parti strumentali. Visto con chi si ha a che fare, ritengo uno spreco clamoroso non approfondire il discorso con soluzioni sempre nuove e sperimentali, invece di rifugiarsi in territori sicuri e ben conosciuti. Come avete potuto leggere sopra, inoltre, parecchie volte le scelte delle melodie non sono state particolarmente felici e l’album, per tutta la prima parte, offre veramente ben poco da ricordare.
Decisamente promossa, infine, la produzione: un disco equilibrato e gradevole, in cui tutti trovano finalmente gloria e spazio. E chiudo aggiungendo un’altra nota lieta: era da tempo che non avevo bisogno di così tanti ascolti per giudicare un album dei Dream Theater, cosa che ritengo estremamente positiva, perché significa che sono stati nuovamente in grado di scrivere musica che mostra a poco a poco le proprie potenzialità e che necessita di essere scoperta e approfondita, caratteristica fondamentale per un lavoro che possa definirsi progressive.
Il tempo in cui i dischi dei Dream Theater mettevano tutti d’accordo è finito da parecchi anni. Ora ci scanneremo tra amici, sui commenti e sui forum riguardo la bontà di questo album, così come è accaduto almeno da
Six Degrees in poi, con l’aggravante che questa volta ci troviamo di fronte anche al primo lavoro senza Portnoy.
Mai come in questi casi, consigliarvi o meno l’acquisto sarebbe abbastanza inutile. L’unica cosa da fare per capire davvero cosa possono darci nel 2011 Petrucci e soci è ascoltarselo per bene e farsi la propria opinione. Per quanto mi riguarda, da loro mi aspetto sempre un album che dall’inizio alla fine mi lasci senza fiato. Personalmente, anche i più bistrattati dischi dei Dream Theater mi hanno sempre lasciato qualcosa di memorabile e anche questo non farà eccezione. Il problema è che, per l’ennesima volta, le mie aspettative sono state parzialmente deluse, cosa che mi fa decisamente arrabbiare, visto che ci sono canzoni in grado di mostrare chiaramente quante potenzialità ci siano ancora in questa band.