Questa volta è centro pieno.
Jonas Reingold, basso pulsante dei
Flower Kings, non ha mai fatto mistero di quanto amore e passione dedichi alla sua creatura
Karmakanic, sorta di zona franca dove il musicista svedese può esprimersi a 360 gradi, scrivendo, producendo, registrando e mixando tutti i brani, fungendo così da vero e proprio direttore artistico del progetto.
Arrivati al quarto album, i Karmakanic possono sfoggiare una line-up di tutto rispetto, fortificata questa volta dall’arrivo del nuovo batterista dei Flower Kings,
Marcus Liliequist, e dalla presenza di un singer di immenso talento come
Göran Edman, che in codesto album è la vera arma in più.
E così, “
In a Perfect World” risulta essere l’album prog rock perfetto per il secondo decennio degli anni 2000, con un’operazione di recupero dei suoni settantiani ed una superba fusione con una tale quantità di sottogeneri, sfumature musicali, testi ispiratissimi, che rendono il cd in questione davvero eccellente.
La partenza è delle migliori: “
1969” ci accoglie con i suoi 14 minuti ed un’atmosfera letteralmente clonata ai miglior Genesis, in cui l’incrocio vocale Edman/Erikson mi ricorda qualcosa dei Transatlantic, per restare nel moderno. Un brano che da solo fa l’acquisto obbligato del disco, ricco com’è di ogni e qualsivoglia cosa una amante del genere desideri sentire: cosi a cappella, parti epiche e rallentate, momenti nervosi e quasi fusion,e chi più ne ha più ne metta, mentre il tema portante della song si traveste, riappare e fa capolino in continuazione, fino ad un finale da standing ovation. E siamo solo alla prima traccia!
Di lì in poi, sarà una sarabanda sonora deliziosa, con una quantità di classe che non si può ottenere con una buona produzione o con un battage pubblicitario azzeccato: qui i pezzi ci sono eccome, c’è una penna strepitosa e sei musicisti più che ispirati, dietro ogni nota di “In a Perfect World”: la ritmica “
Turn it Up” ha suggestioni dei Toto, “
The World is caving In” parte in punta di voce (e che voce) per poi svelarsi come una perla di puro prog rock di quasi nove minuti, “
Can’t Take it with You” è un miscuglio stranissimo tra un mambo ed un brano metal, sperimentale e sorprendente; “
There’s nothing Wrong with the World” porta con sé l’inquietudine dei Pink Floyd e la verde speranza del Peter Gabriel più moderno, in un’apoteosi rock impreziosita da un lavoro vocale davvero rifinito e ricercato; “
Bite the Grit” ha suggestioni più pop nell’intro, ma come gli altri brani, non è quello che sembra, non sembra quello che è; del brano finale potrei dirvi che è un blues acustico dolce e malinconico, ma non immaginate che basti dire ‘blues’ per descrivere quasi dieci minuti di scorribande sonore in punta di piuma...
Un album elegante, pensato a lungo, curato in ogni singola nota, dove il concetto stesso di ‘progressive’ viene esaltato e santificato, rendendo ogni battuta di ogni brano un’ottima occasione per cambiare tutto, un’ottica musicale che oserei quasi definire “zen”. Da riascoltare centomila volte, vi causerà sorpresa, poi stupore, poi curiosità, poi soddisfazione, poi assuefazione. E poi di nuovo daccapo.