La caduta di un Mito.
Che gli
Opeth fossero in trasformazione lo si sapeva. Chi segue la band da molto tempo, sa benissimo quanta acqua sia passata sotto i ponti, dalle sonorità più vicine al death metal del primo periodo, agli album più sperimentali dell’ultimo, come (i pur bellissimi) “
Ghost Reveries” e “
Watershed”. Un tempo di maturazione lungo ma costante, che ha portato
Mikael Åkerfeldt a dissociarsi progressivamente dal metal, per approdare lentamente ad una musica che è a lui più consona, una sorta di prog-rock, come sempre fitto fitto di rimandi ai Floyd, al prog settantiano, alla scena gothic che da sempre fa capolino nelle produzioni targate Opeth. Tutto questo preambolo per dirvi che il nuovo album, “
Heritage”, è la definitiva consacrazione di quel processo di trasformazione. In parole povere? Un album NON metal, dove un rock progressivo e spesso acustico si fonde con strumenti a fiato, atmosfere rarefatte, i soliti testi contorti ed affascinanti ed una produzione strepitosa, a cura dello stesso Åkerfeldt e di Steven Wilson.
Bene, avete letto fin qua, e quindi vi sarete probabilmente fatti l’idea che l’album mi piaccia.
Sbagliato.
“Heritage” è NOIOSO. Un coacervo di masturbazioni musicali fini a se stesse, in cui Mikael ormai è l’unico elemento vero della band, con gli altri ad eseguire il lavoro loro ordinato, ma questo sarebbe il minimo, se da contraltare ci fosse musica interessante, coinvolgente, sperimentale nella giusta direzione. So che a molti di voi gli onanismi di certe star piacciono da impazzire, ma siamo seri, se “
Heritage” l’avesse scritto una band sconosciuta, non avreste perso un secondo a sassarlo nel bidone. Invece no, gli Opeth, sono avanti, loro sono sperimentali, tu non capisci, la loro è evoluzione sonora, senti come la sofferenza dell’universo trasuda dalle semplici note di Heritage, ascolta il brano (“
Slither”) con cui omaggiano Ronnie James Dio, devi capire, loro compongono aprendo le porte ad un universo di sofferenza e redenzione, devi andare dietro la musica e capire cose c’è sotto, non capisci una band, non sono alla tua altezza, ma chi ti fa fare le recensioni, sei un incompetente, non capisci niente di Musica, se non apprezzi il nuovo corso degli Opeth significa che non sei sufficientemente intelligente e colto musicalmente. Bla bla bla.
Dicevo, sto disco è NOIOSO. Il gran lavoro in fase di produzione ne consente un ascolto superbo, ma parliamoci chiaro, qui di roba che ti faccia muovere dalla sedia ce n’è ben poca. “
The Devil’s Orchard”, messa all’inizio dell’album ti fa quasi ben sperare, se subito dopo arrivasse qualcosa di concreto a suggellare il momento. Ed invece troppi brani, da “
Nepenthe” a “
I Feel the Dark” (che prova a scimmiottare gli Opeth che furono), dall’inquietante “
Floklore” ad una “
The Lines in My Hand” che non sa di niente, tutto contribuisce a rendere “Heritage” il (personalissima opinione, eh) punto più basso della carriera degli Opeth. Poi, scrivi pure tutti i testi alchemici che vuoi, ma le atmosfere acustiche e le dissonanze con cui sono infarciti tutti i brani si sposano malissimo ad una struttura-canzone assente, dando all’album l’impronta di una continua jam session sperimentale, in cui solo un canovaccio di motivi portanti fa da base a qualcosa di talmente etereo e sfuggente… da sfuggire per davvero.
Sapete come io sia il primo ad accogliere con entusiasmo l’evoluzione sonora, la progressione, il cambio di pelle, ove questo sia giustificato con una qualità sufficiente. In questo caso, “Heritage” è per me il capriccio auto-indulgente di un Åkerfeldt che ha smarrito l’identità della sua band, reclamandola tutta per sé come un giocattolo privato. E giocaci te, allora.