The cycle has been pieced together, again.
Dopo aver "rotto un ciclo" nel 2001 e aver sfornato una serie di album di risibile interesse, gli
Staind sono finalmente tornati. E non lo dico tanto per dire, sono DAVVERO tornati. E’ chiaro fin da subito, fin dalle prime note dell’omonimo “
Staind” che la formazione del Massachusetts si è infilata in una macchina del tempo ed è tornata indietro di 10 anni, sfornando quello che è il miglior disco della loro discografia, al pari del già sibillinamente citato “
Break the Cycle”. Ma andiamo al solito con ordine.
Gli
Staind nascono a Springfield nel 1995, e dopo un paio di album di buon livello, quali l’esordio “
Tormended” e soprattutto “
Dysfunction”, doppio disco di platino negli States, sbancano il mercato nel 2001 con “
Break the Cycle”, un perfetto mix di post-grunge e nu-metal, che scuote in positivo l’ambiente, proponendoci una band solida, grazie soprattutto alle prestazioni live che ne fanno una delle punte di diamante del movimento. Grande successo, tour mondiali..poi, come purtroppo spesso accade, qualcosa si rompe.
Gli album successivi, “
14 Shades of Grey” e “
V Chapter” sono sempre in vetta alle classifiche americane e mondiali, ma il sound degli Staind si deteriora in maniera palese, perdendo di mordente, regalandoci sempre più ballad e sempre meno potenza, toccando il fondo con “
The Illusion of Progress” nel 2008, senza dubbio il punto più basso della carriera degli americani.
Aaron Lewis, frontman della band, sembra aver perso l’ispirazione e la voglia di spaccare il mondo degli esordi, limitandosi a scrivere canzoni malinconiche, buone per un passaggio in radio ma niente più.
E’ quindi con la morte nel cuore che mi appresto a dare un ascolto e una chance al settimo lavoro degli
Staind, l’omonimo “
Staind” appunto. E il cambiamento è respirabile sin dalla copertina, che abbandona i toni opachi e solitari dei dischi precedenti, mostrando una nuova identità, un essere cornuto con 4 gambe e 4 braccia che sembra volersi scrostare il nero che ha addosso.
E in questo processo, l’opener “
Eyes Wide Open” svolge egregiamente il suo lavoro, pestando duro fin dai primi secondi, presentandoci un Aaron Lewis come non lo si sentiva da anni, che per l’occasione rispolvera anche il suo cantato in scream che l’aveva così caratterizzato agli albori della sua carriera. E la prestazione di Aaron è solo la punta di diamante di una macchina che è tornata a macinare musica coi contro cazzi, schiacciando sull’acceleratore dei decibel e delle emozioni allo stesso tempo, smettendola una volta per tutte di lagnarci con ballad strappalacrime e spaccacoglioni, delle quali gli ultimi lavori erano penosamente farciti.
Il fatto che l’opener non sia un fuoco di paglia ce lo ricorda subito la seconda traccia, “
Not Again”, che segue i binari stesi dalla prima in fatto di potenza sonora, con la chitarra di
Mike Mushok in grande spolvero e soprattutto il ritorno in grande stile di
Johnny April al basso, con quel suono così distintivo che non sentivamo da parecchi anni. Traccia dal titolo quantomai adatto a descrivere la voglia degli
Staind di non ripetere gli errori degli ultimi dischi e di tornare a fare quello che hanno fatto in maniera egregia nei primi anni di vita, se possibile anche in maniera più dura.
Non fraintendetemi però, ci sono ancora momenti più riflessivi e malinconici, ma anche questi sono farciti da un senso di “liberazione”, come se anche il silenzio volesse urlare la sua rabbia e la sua voglia di farsi sentire. Emblematica in questo senso è “
Failing”, mentre la conclusiva “
Something to Remind You” è una classica ballad in punta di acustica.
Ma a fronte di questi momenti più intimi troviamo canzoni quali “
Paper Wings”, nella quale i nostri si cimentano forse nella canzone più metallosa di tutta la loro carriera, con una strofa pesante da far rizzare i capelli e una prestazione graffiante di Aaron, che sembra aver davvero ritrovato lo smalto dei bei tempi.
La parte migliore del disco però rimane il trittico centrale formato da “
Take a Breath”, “
The Bottom” e soprattutto “
Now”, a mio parere la vera perla del disco, sia dal punto di vista prettamente musicale e vocale sia per quanto riguarda la componente melodica. Una canzone quasi “allegra” nel suo incedere, che parla di scelte e di una netta presa di posizione sul futuro, quasi un monito a se stessi.
A tutto questo includiamo una riuscitissima collaborazione speciale con
Snoop Dogg nella traccia “
Wannabe”, che tra una cosa e l’altra sembra un mix tra i migliori
Limb Bizkit e i
Disturbed, nella parte finale, e otteniamo un qualcosa che dalle parti di Springfield non si sentiva davvero da un sacco di tempo.
A chiudere la special edition del disco in mio possesso, due versioni live di “
For You” e “
Spleen”, successi appartenenti al passato della band, ma che aiutano a capire quanto questo “
Staind” sia cronologicamente distante ma concettualmente affine ai primi lavori degli Staind, non stonando affatto nella successione delle canzoni, anzi, chiudendo a dovere un album che segna un ritorno tanto piacevole quanto insperato.
Album quindi che non presenta nessun difetto, nessun filler, nessun calo. Album che, ribadisco, mi ha stupito in maniera estremamente positiva, riportandomi ad amare una band che stava piano piano lasciando il suo posticino nel mio cuore, posticino che è tornata a prendersi con prepotenza e irruenza inaspettate. Per tutti i fan delusi, per tutti coloro che hanno voglia di ascoltarsi 45 minuti di buona musica. Ma che dico buona, ottima musica.
Ottima, perché gli
Staind sono tornati.
Quoth the Raven, Nevermore..