Statunitensi di Chicago, i
The Living Fields pubblicano un album complesso, di grande ricercatezza sonora e florido di architetture che talvolta sfiorano un certo barocchismo musicale. In linea generale si tratta di lavoro che rientra in ambito prog-metal, ma con caratteristiche abbastanza personali. Infatti la formazione non si specchia nelle acrobazie tecniche, pur mostrando ottima perizia strumentale, puntando più decisamente sull’impatto corale della proposta. Per fornire una vaga idea, cenni di Paradise Lost, Rush, Porcupine Tree, con venature malinconiche vicine al goth-metal. Brani non eccessivamente cerebrali ma neppure epidermici, che richiedono alcuni ascolti per essere pienamente apprezzati.
Momenti enfatici e solenni che si alternano a passaggi lenti e decadenti, arrangiamenti di archi per creare atmosfere seriosamente romantiche, voci celestiali insieme a growl metallici, il massimo sforzo viene raggiunto nell’imponente brano conclusivo, una sorta di suite che supera i quindici minuti di durata. Qui si trovano tutti gli elementi che concorrono a formare il sound del gruppo americano: trama estesa e mutevole che cresce e decresce d’intensità, coniugando chitarre acustiche, magniloquenza drammatica e metal carico di epicità.
Sicuramente un lavoro adulto e raffinato, stratificato ma anche dispersivo. Facile smarrirsi nelle giravolte ritmiche di questi lunghi episodi, specie se non si è abituati alle miscellanee tra metal d’avanguardia, modern-prog, gothic-doom e austerità alternativa. Perciò meglio consigliarlo a chi è abituato a proposte un po’ elitarie.
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