Alla ricerca del tempo perduto..
Terzo disco in tre anni per i
Vangough, prolifica formazione statunitense di base in Oklahoma, che con questo “
Kingdom of Ruin” sforna il disco della consacrazione, un capolavoro dall’inizio alla fine, un viaggio lungo 77 minuti nella mente dell’uomo e nello spazio che l’immaginazione può creare. Un viaggio tra le difficoltà della vita, gli abbandoni, la fragilità, la scoperta di un mondo nuovo e bellissimo, il quale nasconde però a sua volta il dolore della perdita. E tra i conigli.
I
Vangough nascono nel 2007, dopo la pubblicazione dell’album solista del cantante e polistrumentista
Clay Withrow. Il successo del disco è notevole e Clay decide a quel punto di mettere su una band vera e propria.
Esce quindi nel 2009 “
Manikin Parade”, ottimo disco di progressive metal ispirato abbastanza chiaramente ai
Pain of Salvation, ai
Dream Theater e con una buona dose di cattiveria sulla falsariga dei
Pantera.
A seguire nel 2010 gli americani realizzano “
Game On”, una raccolta di 10 canzoni prese da altrettanti videogiochi famosi e riarrangiate, da Mega Man 2 a Castlevania, da Super Mario World a Killer Instict. Anche in questo caso il risultato è molto interessante, data soprattutto la particolarità dell’argomento trattato e l’ottima realizzazione tecnica.
Arriviamo quindi al 2011 e a “
Kingdom of Ruin”, un disco che, vi dico la verità, mi ha lasciato a bocca aperta fin dal principio. La maturità mostrata nelle 15 canzoni che compongono il disco è difatti eccellente, soprattutto se consideriamo che il gruppo è solamente al suo secondo album, senza considerare la profondità del concept di fondo.
E mai come in questo caso il concept è di fondamentale importanza per la riuscita del disco: le canzoni infatti raccontano singolarmente una storia incredibile, storia che va seguita pedissequamente in maniera cronologica, senza possibilità di skippare da una all’altra. E’ necessario ascoltarle tutte, perdersi nella bellezza a volte ipnotica della musica e prestare attenzione a quello che il menestrello Clay ci racconta. E’ una storia che incrocia passato, presente e futuro, mondo reale e fantasia, in un turbinio di emozioni positive e negative.
La storia inizia nei panni di un uomo qualunque, che vive una vita qualunque, segnata però da persone che non gli dimostrano la lealtà aspettata (“
Disloyal”) e da amici che lo tradiscono, abbandonandolo al suo triste destino di solitudine (“
Abandon Me”). L’uomo è quindi risucchiato da tutte le sue energie (“
Drained”) e vede che il mondo attorno a se, la realtà in cui vive si sta piano piano distruggendo (“
Kingdom of Ruin”), così come il suo animo sta diventando fragile e sull’orlo del collasso emotivo (“
Frailty”). Solo la moglie, Alice, e i figli riescono a tenerlo in vita.
A questo punto la storia dell’uomo e quella del disco si interrompono. La prima parte, come comprensibile, è permeata da sentimenti negativi, emozioni forti ma oscure, nelle quali l’uomo (in rappresentazione di se e della razza umana) si perde e finisce quasi per annegare. Il tutto è supportato adeguatamente dalla musica, cupa, ricca di passaggi più pesanti, dove le chitarre si fanno sentire in maniera pressante, pur senza mai eccedere, salvo qualche passaggio dove Clay spolvera addirittura un simil-growl. I primi
Pain of Salvation potrebbero essere un effettivo termine di paragone adeguato, così come i
Flower Kings, tanto citati dallo stesso Clay come ispiratori. Forse qualche canzone poteva essere più incisiva, ma globalmente è un’ottima prima parte di disco. La canzone più rappresentativa di questa prima parte è a mio parere la centrale “
Drained”, nella quale l’uomo si rende conto di essere privato di tutto quello che possiede, fisicamente e mentalmente. E’ anche la canzone più spiccatamente metal dell’intero disco, con un ritornello trascinante che rimane ben piazzato in testa, canzone che mi ha ricordato in più di un’occasione i
Threshold, in particolare nell’uso della batteria.
Come anticipato, con la bellissima strumentale “
Transformation”, che sembra quasi ispirata alle musiche di Nobuo Uematsu per Final Fantasy, avviene un cambiamento: l’uomo fugge dalla realtà e si trova catapultato in un mondo di fantasia, il magico e misterioso Regno dei Conigli. Si rende conto prima di tutto che quel posto è a lui familiare (“
The Rabbit Kingdom”), o si convince di ciò, arrivando addirittura a ricordare di esservi nato e di essere il principe ereditario. A quel punto il dubbio è se rimanere (“
Stay”) o andarsene, tornare a casa dalla sua famiglia e alla sua vera vita. Il Regno dei Conigli però offre un sacco di attrattive, è un mondo dove, se si vuole, si può saltare come rane e volare come piccioni (“
Sounds of Wonder”) oltre a un rapporto molto stretto con il Re, suo padre (“
A Father’s Love”), del quale ricorda episodi avvenuti durante l’adolescenza. Il padre però, già gravemente malato al suo arrivo, muore (“
Requiem for a Fallen King”) e l’uomo diviene quindi il nuovo Re. Le paure della vita reale però prendono il sopravvento e il regno si sgretola (“
An Empire Shattered”), soprattutto data la poca fiducia del popolo in una persona mai vista prima, questo finché l’uomo non prende coraggio e grazie all’aiuto del pensiero del padre morto, ma vivo nel suo cuore, riesce a prendere coscienza di se. L’unica cosa che gli manca però è l’affetto della moglie (“
Alice”) e quindi si ripresenta la scelta (“
The Garden Time Forgot”) : rimanere o partire?
La seconda parte si conclude così, con la decisione dell’uomo, che non vi voglio però rivelare. Seconda parte che dal punto di vista compositivo è di assoluta eccellenza, racchiudendo nelle 8 canzoni che la compongono tutto quello che un moderno gruppo progressive possa realizzare. Progressive nel vero senso della parola, dato che i Vangough spaziano da un mondo all’altro, includendo elementi folk, elettronici e sperimentali. Il clima nel Mondo dei Conigli è decisamente più scanzonato e rilassato, più arioso, fatta eccezione per “
Requiem for a Fallen King”, in cui fa ritorno il torpore della prima parte, accentuato dalla pioggia di sottofondo, e per le due canzoni più intime del disco, “
A Father’s Love” e “
Alice”, dove spicca la prestazione maiuscola di Clay. Zenit di questa seconda parte è senza dubbio “
An Empire Shattered”, meraviglioso episodio che ricorda a tratti i
Queen, in particolare nell’uso della chitarra e dei cori, splendida nel raccontare con allegria, in musica e in parole la rinascita spirituale dell’uomo, messo a confronto con la cruda realtà della morte.
Un disco quasi perfetto insomma, che se avesse presentato qualche variazione stilistica in più nella prima parte sarebbe stato da 10 pieno, senza storie. Detto questo abbiamo a che fare con un gruppo, i
Vangough, che ha tutto il diritto di ritagliarsi uno spazio importantissimo nel panorama progressive odierno. Da godere prima che da ascoltare, da assaporare prima che da sentire. Per tutti, perché non si è mai troppo grandi per apprezzare una fiaba ne troppo piccoli per comprendere la realtà.
Quoth the Raven, Nevermore..