Continua il “sogno Americano” per gli australiani
White Widdow, impegnati per la seconda volta ad offrire la propria forma di devota celebrazione discografica alla grande tradizione
yankee dell’hard melodico, ratificando, con questo nuovo “Serenade”, il ruolo di una delle realtà più attrezzate per la necessaria “continuazione della specie”.
Qualcuno potrà storcere il naso, anche perché gli appassionati più smaliziati del settore sommano spesso notevole competenza ad un
pizzichino di
snobismo che li fa dubitare istintivamente quando i modelli di confronto utilizzati si chiamano Aviator, Surgin, Journey, White Sister, Survivor, Dokken, Giuffria e Legs Diamond (a cui oggi si aggiungono vividamente anche i britannici Def Leppard, ascoltare “Do you remember” per referenze), magari vagheggiando di una (im)possibile parificazione, ma se è vero che per molte ragioni gli
aussies non sono ancora in grado di mettere in seria difficoltà i loro maestri è altrettanto certo che la prova ingaggiata in “Serenade”, all’interno di un genere che non intende in nessun modo rivoluzionare il mondo del rock, appare dotata di una freschezza ed una vocazione tali da renderli sicuramente degli emergenti di comprovata fedeltà e di enorme sostegno alla causa melodica.
Il vibrante gusto armonico delle composizioni, le suggestive intonazioni della laringe cristallina di Jules Millis, pilota di arrangiamenti vocali sempre fascinosi, l’impatto e la policromia delle chitarre di Enzo Almanzi, senza dimenticare il contributo sinuoso e pomposo delle tastiere di Xavier Millis, sono gli elementi chiave di un programma capace di rileggere i “classici” con slancio e forza espressiva, producendo dieci gioiellini di raffinatezza e vitalità, equipaggiati (chi più e chi leggermente meno … le mie preferenze assolute vanno a “Cry wolf”, “Reckless nights”, “How far I run”, alla
title-track e a "Mistake”, ma si tratta veramente di sottigliezze soggettive …) di tutte le caratteristiche essenziali per soddisfare le “ragioni di vita” (solo quelle musicali, ovviamente …) di tutti gli
AORsters all’ascolto, sia si tratti d’
innocenti neofiti o di
scaltri veterani di questo eccitante modo d’intendere l’arte delle sette note.
Appena un
alito di ripetitività e un debolissimo
refolo di eccessiva prevedibilità servono a limitare gli entusiasmi e a contenere l’innata benevolenza, sentimenti
quasi inevitabili quando si ha a che fare con dei “cuccioli” (per quanto risoluti e disinvolti) in un branco di “lupi” (ovvero tutte le celebrità “di ritorno” grementi la scena …), incapaci, però, d’impedirmi di esortare il glorioso pubblico di metal.it a sostenerli come meritano, garantendo ai White Widdow gli stimoli necessari a rendere ancora più autorevole e coraggiosa la loro già brillante prestazione.
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