“Legends never die” è un disco privo di
vere sorprese.
Un’affermazione perentoria, difficile da confutare, ma tutt’altro che il preludio ad una severa critica.
Eh, già perché ai
Graal, valente formazione romana al terzo sigillo discografico sulla lunga distanza, non interessa stupire l’astante tramite forme stilistiche innovative, la sua
missione, sintetizzata nel titolo stesso dell’opera, è quella di conquistarlo tramite l’amore che nutre per alcune delle più grandi bands della storia dell’
hard /prog rock, trasfuso in maniera palpabile in composizioni che sembrano fatte apposta per chi lo stesso sentimento lo ha visceralmente provato anche solo durante l’ascolto dell’arte prodotta negli anni da tali maestri, non avendo poi a disposizione gli stessi mezzi posseduti dai capitolini per tramutare la gratitudine in una prestazione musicale davvero edificante.
Poco importa, infatti, se
certi suoni sembra di averli già sentiti o talune strutture armoniche rimandano espressamente a situazioni ampiamente collaudate, quello che conta veramente è che i Graal sono talmente lontani dalla sterile emulazione da risultare
quasi come un gruppo
contemporaneo dei vari Deep Purple, Uriah Heep, Jethro Tull, Black Sabbath, Yes, Kansas, Genesis, Budgie e Bloodrock, ammantando d’imprescindibile autenticità una prestazione ricca di riferimenti eppure altrettanto munifica nella presa emozionale.
Segno evidente che l’attitudine è quella giusta e che un’aliquota di personalità è comunque ben presente almeno nella
qualità e nella
misura di
citazioni capaci di costruire canzoni senza tempo, nobile prerogativa riservata a chi la materia la “possiede” in maniera pressoché incondizionata.
In tale blasonata
scenografia è ovvio che la voce abbia un ruolo assai importante, ed ecco che quella di Ciccomartino appare completamente adeguata allo scopo: dotato di una laringe piena e generosa, Andrea non consente ai suoi molteplici numi tutelari (Steve Walsh, Ian Gillan, David Byron, Glenn Hughes, finanche un Paul Stanley …) di trasformarlo in una loro sbiadita
controfigura e pilota con sicurezza i suoi abilissimi compagni d’avventura, trovando, come da copione del resto, in Francesco Zagarese (e nella sua chitarra spesso brillantemente Blackmore-
iana) un indispensabile sodale.
“Gods Of War” mesce in parti uguali energia e raffinatezza, “Maybe tomorrow, maybe one day”, “Keep on movin'”, "I'll find a way” e la splendida “Time to die” condensano lo spirito di Heep e Purple con la forza di una notevole espressività, le vibrazioni
funky di "Stickin’ with you” coinvolgono nell’adunanza pure i Trapeze, laddove i sostenitori dell’
hard-prog-folk riconosceranno nelle magie celtiche di “Across this land” le caratteristiche tipiche del gioiellino.
“Ocean's tides” aggiunge un pizzico di dramma Sabbath-
iano alla gustosa ricetta e lo stesso ingrediente lo ritroviamo, ulteriormente stemperato, nella fascinosa “Stay” dove si combina con una preponderante soluzione di concezione Proto-Kaw / Kansas-
esque, davvero riuscita.
Il prezioso arrangiamento acustico e le stratificazioni vocali di “Winter song”, capaci in qualche modo di rievocare gli affreschi sonori di Yes e Genesis rappresentano il tocco finale ad un lavoro
prevedibile tanto quanto può esserlo un’emozione già
conosciuta, ma anche
appagante proprio come sa essere quella stessa sensazione quando è così
intensa da non poter essere trascurata.
Se cercate la
perfezione creativa, beh, quella magari in “Legends never die” non c’è, mentre se anche voi pensate che
certi miti non sono soggetti al normale ciclo vitale degli esseri viventi, non mancate un dovuto contatto con i Graal.