Quante volte si è portati ad utilizzare indebitamente il termine “artista” per indicare un
semplice musicista, magari anche carismatico e molto competente, ma poi, in un’analisi ad ampio spettro, ancora un po’ distante da una gratificazione denominativa così impegnativa? Molte, credo.
In questo caso, però, non ci sono dubbi o incertezze: con Mario Di Donato quest’appellativo assume il suo significato più pieno e integrale, e una ricca storia di musica (dagli albori
seventies dei Respiro Di Cane, passando per Unreal Terror e Requiem), di cui i
The Black sono l’ultimo stimolante tassello, e di pittura, dal punto di vista spirituale intimamente legate eppure magnificamente indipendenti, rappresentano le testimonianze inoppugnabili di tale altisonante qualifica, dalla quale sono imprescindibili valori quali vocazione naturale, prorompente passione e un’indomabile determinazione nel perseguimento del proprio percorso espressivo, anche se lontano dai clamori della notorietà (in realtà il nostro nelle vesti di pittore è alquanto apprezzato …) e dalle ipocrisie delle mode.
Una visione
artistica, dunque, completa e immaginifica, solo apparentemente, per certi versi, in contrapposizione (l’oscurità espositiva di The Black che si scontra con una grafica nei dipinti spesso cromaticamente piuttosto vivace) e sebbene in questa sede tratteremo principalmente l’aspetto sonoro della questione, il consiglio è di non limitarsi all’
artwork delle copertine dei suoi dischi, vergati ovviamente dal suo creativo pennello, e di approfondire ulteriormente il fascinoso profilo pittorico di Mario.
Arrivati all’ascolto di “Gorgoni”, lavoro dedicato alle omonime figure della mitologia greca (le sorelle Medusa, Steno ed Euriale), simbolo della perversione (intellettuale, morale, sessuale, rispettivamente), si è pervasi immediatamente dal consueto alone di misticismo e di arcane atmosfere spettrali cui ci ha splendidamente abituati il
maestro abruzzese e anche se il tema del vizio e dell’immoralità è sempre piuttosto (tristemente …)
attuale, l’ambientazione è essenzialmente quella di un
heavy-dark-doom primordiale, intrecciato d’influssi progressivi, in una revisione illuminata di ciò che fecero i capiscuola
settantiani del settore (Black Sabbath in testa, ovviamente, ma anche i Judas più tenebrosi …), sulla via di un tracciato personale e distintivo nonostante il vivido
background ispirativo.
Le chitarre ossianiche e guizzanti, il basso pulsante e decisivo di Nicolini, la batteria aitante e dinamica di Bracciale, l’evocazione sporadica delle note solenni e rabbrividenti di un organo e il magnetico cantato indifferente alla prestazione dirompente eppure così catalizzante e visionario (anche per merito di un suggestivo uso del latino … l’equivalente, in teoria, di un “suicidio commerciale”, ed ecco che ritornano i principi di
autenticità e
sovranità espressi in precedenza …), non hanno davvero nulla di “moderno” o stilisticamente innovativo e tuttavia l’obiettivo di abbinare l’
Arte al
Doom Metal (due entità, in un’ottica
snobistica delle cose, formalmente inconciliabili!), dichiarato in più di un’occasione dal Di Donato, in “Gorgoni”, si può dire realizzato appieno, almeno se al nobile concetto assegniamo la (soggettiva) capacità di trasmettere imperiose emozioni.
Non mi affiderò a segnalazioni particolari (limitandomi a citare, per dovere di cronaca, “Altamir”, che vede la presenza in fase esecutiva e compositiva di Thomas Hand Chaste, noto per la militanza in Death SS, Witchfield e Sancta Sanctorum), poiché la forte carica emozionale prodotta dall’ascolto del disco e il grado di tensione che ne deriva sono tali da esigere una fruizione partecipe e completa, mentre per la chiosa conclusiva non posso che raccomandare caldamente l’acquisto (il verbo non è casuale …) di quest’opera … nobiliterà sicuramente la vostra
pinacoteca personale dedicata a quella particolare forma d’
arte chiamata
musica.