Dopo sette anni, si palesa di nuovo il meraviglioso trio a nome
The Jelly Jam:
Ty Tabor (King’s X) alle chitarre ed alla voce,
Rod Morgenstein (Dixie Dregs) alla batteria e
John “
The Silent Man”
Myung (Pooh) al basso. Ed è un gran piacere scoprire che i tre supermusicisti abbiano trovato il tempo per riunire ancora le forze, dopo due capitoli a dir poco deliziosi di questo side project di prog rock intenso ed emozionale. Il nuovo nato, “
Shall we Descend” è, se possibile, ancora migliore dei suoi predecessori.
Cominciamo dalla produzione: cristallina e ruvida, lascia sentire tutto, ma proprio tutto, avrete la perfetta sensazione della bacchetta che colpisce il charlie, o delle dita di John che si appoggiano sulla corda, un millisecondo prima di rilasciare la nota. Sembra poco, ma buona parte del sound di un album (soprattutto in un genere ‘raffinato’ come è da sempre inteso il prog rock) dipende proprio da accorgimenti come questo: qui non c’è ipercompressione, ma al contrario una ricerca del suono puro, senza inutili orpelli. In questa condizione ideale si muovono le composizioni di Tabor e soci, melodicamente davvero belle, accattivanti dalla prima all’ultima, a cominciare da “
Who’s Coming Now”, prima perla di una collana di gemme preziose. In questo disco niente suggerisce l’urgenza, la potenza, o la fretta, ciò non toglie che non manchino momenti più muscolosi, e penso alla bellissima strumentale conclusiva “
Ten”, a “
Stay Together” e molti altri momenti sparsi qua e là in dieci songs che comunque spingono più sull’interpretazione e sulla forma-canzone, che sul mero sfoggio di tecnica. E questo è un bene, perché svincola i tre esecutori dal dover dimostrare alcunché, così che momenti delicati e toccanti come l’intro di basso di “
Questions” si trasformano in sussurri delicati alle vostre orecchie, con poca o nessuna voglia di aggredire l’ascoltatore.
Dovrebbe essere chiaro il pensiero di chi scrive: “Shall We Descend” è un album strepitoso, che finirà nel dimenticatoio solo (probabilmente) per l’enorme peso della bands madri, che paradossalmente assorbono tutta l’attenzione su di sé, e per colpa di un mercato troppo saturato, affollato di nomi che fanno a gara a chi grida più forte, laddove una band deliziosamente low-profile come i The Jelly Jam non alzerà mai la voce più di tanto. Datemi retta per una volta, amanti del prog rock: prestate attenzione a questo disco, è delizioso.
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