Ahhhh era parecchio che non mi sentivo del Power Metal di stampo crucco, quello pieno di tastiere, cavalieri, doppia cassa a valvola e un riffing robusto per i mid-tempo. Pensare che verso la fine degli anni '90 questo genere faceva, discograficamente parlando, il bello e il cattivo tempo nel mondo del metal. Eppure, nell'ex regno delle borchie e della pelle, nessuno voleva più sentir parlare di Heavy Metal Classico dal 1991 fino al 1996.
I soldoni giravano nelle spigolature hardcore in chiave funky del crossover (poi diventato "
nu metal"), nello sfoggio tecnico del prog metal dei Dream Theater o nell'evocazione sonora del maligno, ovvero Il Death/Black Metal.
Le recensioni, per chi suonava qualcosa di eccessivamente legato agli anni '80, erano spesso prese in giro piene di insulti, ricordo a tal proposito la recensione di “So What” degli X Wild.
Sarebbe bene ricordarlo ai tanti artisti che oggi sfoggiano ai 4 venti le "loro radici anni '80", quando 20 anni fa si guardavano bene dal farlo, mi verrebbe in mente un nome ma chiudo la parentesi polemica e torno al punto.
Come se non bastasse, per ordinare in Italia un disco metal classico, di quelli con i musicisti col chiodo e i riff alla Maiden/Priest per intenderci, spendevi anche 40.000 lire.
Qualche band più classica riusciva finalmente a imporsi, vedi i Running Wild che negli anni '80 erano snobbati dal metallaro medio o i Blind Guardian ad esempio. Altri si riunivano nel periodo sbagliato (Accept/Exciter), mentre le nuove proposte riuscivano a ritagliarsi una piccola e fedele parte di fan in Germania o in Giappone (vedi Angra o i Gamma Ray, anche se quest'ultimi non erano dei newbie al 100%).
Il 1997 fu l'anno della svolta, l'uscita del primo lavoro degli
Hammerfall aprì il coperchio di una pentola che ribolliva da tempo, forse perché parte della "rock audience" si era stancata del parossismo sonoro del metal più estremo e del nichilismo del grunge.
Da questa nuova ondata uscirono un numero quasi infinito di gruppi più o meno validi. Portatori sani di melodie già sentite e orecchiabili, con produzioni più curate e un massiccio uso di tastiere, condito da un background che spesso piaceva al metallaro medio.
I danesi Iron Fire vengono proprio dalla rinascita power della sopracitata epoca.
Il debutto "
Thunderstorm", uscito 12 anni fa, pur avendo un sound devoto a gruppi cardine dell'epoca come Edguy o Domine, si faceva ascoltare con piacere.
Non essendo il loro fan numero 1, col tempo ammetto di averli persi vista, nonostante questo mi sono avvicinato al loro nuovo lavoro con curiosità.
La prima cosa che salta all'orecchio dall'ascolto di
"Voyage Of The Damned", è che parte del tipico mood power metal è ormai scomparso dal loro songwriting. Intendiamoci, le melodie orecchiabili ci sono ancora, ma le atmosfere sono nettamente più cupe.
Le orchestrazioni, così come i suoni un po' plasticosi tipici del genere, sono ancora massicciamente presenti. C'è da dire però che qua e là compaiono vocals al limite del growl, insieme a qualche riff che fino a qualche tempo fa non avrebbe trovato certamente posto in un disco del genere.
L'opener "
Enter Oblivion OJ 666" è un pezzo piuttosto veloce, particolare in alcune scelte vocali, ma comunque ascoltabile e piacevole. Dalla successiva traccia, si lascia spazio a una manciata di mid-tempos che tutto fanno tranne che gridare al miracolo, mentre sarebbe totalmente evitabile "
The Final Odissey", classico pappone ripieno di melassa sconsigliatissimo a chi soffre di diabete.
Con "
Ten Years In Space" e le sue tematiche alla Iron Savior si rialza il livello del platter che dopo la prima traccia stava scemando paurosamente. Si tratta ancora di un mid-tempo, stavolta però corposo e vario, con un bel riffing possente e un ritornello rallentato ricordabile ma non eccessivamente stucchevole.
Si ritorna a bassi livelli con la title-track e i suoi 10 interminabili minuti di parti incollate alla bell’e meglio, mentre al contrario la successiva "
With Different Eyes" non è malvagia, grazie a una strofa retta dal sempreverde terzinato di doppia cassa.
Il resto dell'album comunque non decolla, i mid-tempos sono talmente inflazionati che se fossero valuta contante in questo disco, varrebbero quanto la moneta argentina nel 2001. In poche parole, se questo lavoro dovesse rappresentare la maturazione degli Iron Fire, direi che possono rimare ancora un bel po' sull'albero.
La mancanza di verve di "AVOTD" è talvolta disarmante e palese, ora sarò ripetitivo ma non mi stancherò mai di dirlo: NON BASTA QUALCHE SOLUZIONE DIVERSA DAL CLASSICO PER FARE IL SALTO DI QUALITA'. L'originalità, il tocco di classe, l'inventiva, c'è poco da fare, non te le puoi inventare: o le hai o non le hai, e gli Iron Fire non ce l'hanno.
Manca la voglia di spingere, di creare pezzi semplici e immediati, la capacità di fare quelle poche e semplici cose che hanno fatto la fortuna del power metal tedesco di fine anni '90, caratterizzando in parte anche il debut album di questi 4 (spero non bassotti) per un danese. Ciò che resta dei "vecchi" Iron Fire sono le orchestrazioni pacchiane, ovvero l'unica cosa sulla quale potevano risparmiare.
Consigliato solo ai fan sfegatati della band che devono essere tantissimi, visto che stiamo parlando di un gruppo che fa dischi da 12 anni.