Chi segue da vicino il settore heavy rock/stoner è consapevole che negli ultimi tempi l’etichetta in maggiore spolvero è certamente la piccola Small Stone di Detroit. In un certo senso il loro marchio ha sostituito quello della mitica Man’s Ruin, con la differenza non ininfluente di aver puntato sin dall’inizio sulla qualità anziché sulla quantità, debolezza fatale della label di Frank Kozik. In sostanza pochi gruppi, ma buoni.
Ed è merito di tale filosofia se possiamo imbatterci in un power-trio come gli Halfway to Gone, nati come alcuni sapranno da una costola dei Solarized. Nel silenzio mediatico che avvolge e nasconde questo settore, la band del New Jersey è giunta al terzo album e mostra di scoppiare di salute ed energia, altro che le lagne da educande che ci spacciano per hard rock ed affini.
Muscoli e tinte forti, alcool e potenza, ma anche grande rispetto per l’ascoltatore al quale vengono presentate belle canzoni, schiette, rifinite, varie, e non soltanto confusione e casino da bulli di periferia.
Gli HtG non hanno studiato nelle strampalate scuole degli innovatori, i loro maestri sono stati quelli eterni della tradizione: il blues, l’hard, il southern, Purple, Sabbath, Motorhead, Lynyrd, gli anni della musica genuina, e che gli altri si tengano pure le meraviglie tecnologiche, le megaproduzioni, gli ingegneri elettronici e le macchinette sputanote. Qui c’è un ottimo disco di heavy rock e nient’altro.
Frustate ustionanti da torcicollo (“Couldn’t even find..”,”Burn’em down”) più che sufficenti per un sano headbangin’, alternate a magici hypno-trip vellutati alla Nebula (“His name was LeRoi”) o cristallinamente blueseggianti (“The other side”) nei quali risplende fulgida la stella di Lee Stuart, romantico perdente che predilige ancora il cuore ed il sentimento alle mitragliate di scale ed accordi fanta-tonici.
Qualche atmosfera cupa e minacciosa che ricorda i compari e colleghi d’etichetta Dixie Witch (“Turnpike”) ed una manciata di brani heavy solidi e rocciosi, appena screziati di onorevole southern-feeling come ci hanno mostrato gli ultimi Corrosion of Conformity (“Hammer’s fallin”,”Good friend”,”King of mean”), eseguiti con la grinta dei classici e senza la pigrizia mentale delle clone-bands.
Resta ancora lo spazio per una concreta cover di “Black night” (se vi chiedete di quale gruppo, è ora di cambiare hobby..) e per un piccolo cameo conclusivo che ci proietta in un fumoso club anni ’60 dove, mollemente rilassati sorseggiando un bourbon, ascoltiamo un terzetto jazz-blues della stirpe dei Korner e dei Mayall. Il raffinato finale che non ti aspetti da una formazione di irsuti combattenti rock.
L’eterno problema di queste magnifiche piccole bands, che mantengono vivo lo spirito del rock più viscerale e sanguigno, è quello di procurarsi un pubblico numericamente decente restando in quella zona d’ombra che si frappone tra l’hard rock tradizionale, lo stoner e l’heavy metal. Un territorio dai confini sfumati, all’interno del quale puoi trovare tutti e nessuno, ma che io mi auguro in questa occasione estremamente affollato di gente che darà fiducia agli Halfway to Gone. Una formazione che ha ormai consolidato la proposta e definito lo stile, per questo pubblica un album vero ed interessante dall’inizio alla fine meritandosi onore e considerazione.
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