Credo che affrontare un discorso su “5150” solo in termini di mero dualismo Roth/Hagar sia riduttivo. Com’è arcinoto, dopo il successo planetario di “1984” (il cui singolo “Jump” penso sia universalmente conosciuto anche dagli ascoltatori più distratti e meno appassionati), i
Van Halen decidono di cambiare pelle, facendo di necessità virtù dopo l’abbandono di D.L. Roth (un po’ troppo) convinto di poter proseguire da solo una carriera sfavillante, come quella vissuta da frontman per la band. Roth fuori e Hagar dentro, dunque. Comincia l’era dei “Van Hagar”, mai del tutto accettata e digerita dalla base dei fan più affezionata ai “Classic Van Halen”, nonostante i milioni di dischi venduti e la raffica di primi posti in classifica raggiunti nei circa dieci anni di permanenza del buon Sammy (migliore, a mio modesto parere, anche in sede live rispetto all’istrionico e meno “quadrato” Roth).
“5150” esce nel 1986 per Warner Bros. L’assenza di Roth e l’ingresso del “Red Rocker” Sammy Hagar non sono le uniche novità del disco: dopo anni di collaborazione, il produttore Ted Templemann, che aveva con alcune grandi intuizioni contribuito al suono dinamitico della band, lascia il proprio posto ad un’intera squadra, composta da Donn Landee (ingegnere del suono di tutti i dischi precedenti), Mick Jones (devo davvero dirvi chi sia?) e agli stessi Van Halen (si dice i soli Eddie e Alex). Altro elemento di novità è rappresentato dall’inaugurazione dello Studio 5150, di proprietà degli stessi Van Halen, nel quale il disco è realizzato con senso di identità e di appartenenza ancora maggiori rispetto al passato.
Parliamo allora di questo disco. Con il vinile fra le mani, sorrido nell’osservare una delle copertine più pacchiane che il Rock possa annoverare: un culturista/Atlante regge sulle possenti spalle una sfera d’acciaio, cerchiata da un anello raffigurante il logo della band. La palla di metallo è in procinto di incrinarsi per effetto di un’energia esplosiva proveniente dall’interno. Il tutto fra sfondi di marmi, ardesia verde e luci celebrative. Sul retro, il colosso e la sfera alla fine hanno ceduto: lui giace a terra e dal guscio squarciato fa capolino il quartetto agghindato con giacche e magliette multicolor e acconciature cotonate. Homer Simpson griderebbe fiero “U-S-A! U-S-A!”.
Ma torniamo seri, perché la sostanza di “5150” è ben altra e merita parole attente e chiare. I Van Halen non hanno nessuna voglia di sfigurare nel confronto con l’ottimo “Eat’em and Smile”, che Roth pubblica nello stesso anno (con una formazione da panico Vai + Sheehan + Bissonette) e partono fortissimo con “Good Enough”, un hard rock adrenalinico in cui si dettano le regole base del genere. Uno dei più grandi chitarristi della Terra sale in cattedra e gli fa eco una voce alla nitroglicerina, che marca forte il nuovo corso della band. Il suono di Eddie è cambiato: innanzitutto lascia il canale destro dei nostri diffusori (tipico dell’effetto live che Templemann aveva scelto per le registrazioni) per spostarsi al centro del mixer, con tutt’altro impatto sui nostri timpani; echi, flanger e phaser scompaiono quasi del tutto per far posto ad un suono più compresso ed asciutto, che mette ancor più in risalto le doti di questo straordinario genio delle sei corde. Alex Van Halen inaugura un set di tom elettronici sul quale sfoga la sua consueta furia e anche lui imprime al sound un’altra notevole sterzata. Mike Anthony è la solita sicurezza, bassista solido e voce cristallina, che con i suoi cori ha sempre contribuito a creare un marchio di fabbrica per il gruppo.
Il disco prosegue con “Why Can’t This Be Love”, in cui l’Oberheim OB-8 suonato da Eddie gonfia i muscoli come il forzuto in copertina. Il brano, singolo che ha spinto “5150” al 1° posto nella classifica americana, ha una forza scanzonata e trascinante ed ha la capacità di proiettarti oltreoceano, tanto è forte la suggestione di quel suono frizzante e strafottente. Un signor singolo: commercialissimo, efficace e coinvolgente.
“Get Up” presenta il Van Halen che non ti aspetti, per ostentazione di potenza: una Steinberger con pick up EMG viene spinta al limite dell’uso della leva, in un riff velocissimo in cui Alex sfiora lo speed metal e Sammy brucia le corde vocali con una prestazione maiuscola. “Dreams” presenta il Van Halen che non ti aspetti, per ostentazione di gusto troppo chino verso un rock melodico (qualcuno ha detto Journey?) bello e con un assolo di chitarra da favola, ma che rappresenta un aspetto del nuovo suono che preferisco decisamente di meno. Troppo ingombranti (e un po’ banali) piano e tastiere, troppo snaturato il suono rispetto all’uso dei synth, che Eddie a dimostrato di saper usare in modo molto più originale di così.
“Summer Nights” e “Best of Both Worlds” (che apre il lato B del disco) rimettono in carreggiata lo spirito hard rock della band, giusto in tempo per rimanere nuovamente interdetti dal pop sdolcinato di “Love Walks In”, il primo brano che I Van Halen compongono e provano in studio col nuovo cantante, stando a quanto raccontato in più interviste.
La luce (e che luce!) si rivede alla traccia n°8, quella “5150” che da il nome a tutto il disco. Brano fantastico, in cui la dinamica fra intro, strofe, ritornello, assolo e finale in crescendo è degna del miglior repertorio della band di Pasadena. La chiusura è affidata alla giocosa “Inside”, gran bel pezzo con un basso portante robustissimo e degli ottimi innesti di chitarra, sempre con quel suono graffiante e scoppiettante che caratterizza tutto il full lenght.
Mettere un voto a Sua Maestà Eddie Van Halen è per me come mettere il voto in condotta al Dalai Lama. Per me “5150”, nonostante alcune scelte meno vicine al mio modo di sentire la musica, e la musica di questo gruppo in particolare, si aggira fra il 9 ed il 10, impossibile fare e pensare diversamente. Eddie Van Halen, che ho avuto il privilegio di applaudire nel ’93 nella data romana al Palaghiaccio, rappresenta per me il fondamentale anello di congiunzione fra epoche mitiche per il genere musicale che celebriamo su queste pagine: è l’ultimo dei grandissimi degli anni’70, con i quali condivide il periodo storico, sia dal punto di vista puramente cronologico, sia dal punto di vista del gusto e dell’incarnazione dello spirito del tempo. Ed è tuttavia il primo ad aprire una nuova era negli anni ‘80, prendendo prepotentemente la chitarra e spostandola ad un altro livello di interpretazione, di possibilità espressiva e di tecnica. È un caposcuola, è un fenomeno che tutti proveranno ad imitare, è uno sperimentatore, è un liutaio autodidatta che smonta, rimonta, costruisce e distrugge decine di chitarre, quasi a voler cercare anche matericamente un modo nuovo di prendere gli elementi di questo linguaggio e riassemblarli a suo piacimento.
“5150” è uno dei frutti più dinamici partorito da questa testa (certo, con l’aiuto degli altri, sempre accreditati fra gli autori dei brani). È un disco che piace perché è invadente, spaccone, magnificamente kitch e suonato da dio, da un gruppo in stato di grazia, come i live del tour successivo al disco proveranno al 100%.
A cura di Ennio “Ennio” Colaninno