Osservando attentamente, tra le fiamme rosso porpora del booklet è possibile scorgere una delle rare immagini dei The Glasspack, band antidiva per eccellenza e per nulla incline ad esibire qualcosa di sè che non sia la propria musica. A mio parere c’è però un’altra causa per questa ritrosia fotografica, per quel che mi riguarda è il trio più brutto e scalcagnato mai visto in trent’anni di rock duro.
Un capellone pseudo-hippy malvestito e dall’espressione fortemente inebetita e tossica, un pachiderma di oltre cento chili con il viso e l’abbigliamento di un bambino poco sveglio, uno strambo cow-boy totalmente stordito e con i calzoncini corti. Il tutto ambientato in uno di quegli orridi quartieri di villette borghesi che si vedono solo negli Usa, un delirio di giardinetti fioriti, lindi sentieri e lucidi camper per la gita domenicale. Altro che inventarsi il look da cattivoni, studiare le pose da true-qualchecosa, rubare il make-up alle sorelline, qui sembra di essere sul set di “Forrest Gump” ma con gli interpreti di “Frogs”.
Talvolta un semplice ritratto offre tantissimi elementi essenziali. Questi ragazzi non appaiono del tutto normali, c’è qualcosa di storto, d’incompleto, d’insano in loro, e ciò si riflette inevitabilmente nella loro musica.
Un sound piagato, ipersaturo, malato, cigolante, attraversato da una strana corrente maligna ed ostile, ancor prima che psicotica e drogata.
Il trio di Louisville chiama “dirty ass American rock’n’roll” questo fragore velenoso e maledetto, sfregiato da vocals che sembrano conati acidi e da schizzi di materia psichedelica che non è neppure lontana parente di quella liquida e carezzevole del deserto, ma ha il sapore di lsd andato a male, di sniffi di collante e trip con visioni da incubo.
Trentasei ore per registrare questo sporco incesto tra i Rolling Stones e gli Electric Wizard, un’orgia sfiancante di feedback ed effettacci sul microfono ma senza menarla per le lunghe, pezzi brevi, compatti, e sputati dritto in faccia.
Perché ho nominato i Rolling Stones in questo contesto? Perché c’è la cover di “Gimme shelter” che perfino i fans più accaniti di Jagger e soci stenteranno a riconoscere dopo lo stupro operato dai The Glasspack, che l’hanno trasfigurata in una delle loro catramose canzoni.
Prendiamo un lisergico strumentale noise-doom come “Hairsoup” che di per sé non è nulla di clamoroso, nell’interpretazione di questi tre sbandati assume un’inconfondibile aria mefitica, soffocante, primitiva, ad alto rischio di assuefazione perché esattamente ciò che si pretende da una band di sporco rock’n’roll, se si conosce a fondo questa musica.
Il favoloso volo allucinatorio della lead-ospite di Ed Mundell in “Peepshow”, il martellare sguaiato ed ignorante di “Twenty-five cents” e “Barn party”, fino alla sghemba orecchiabilità di “Oil pan” dimostrano, se ce ne fosse ancora bisogno, in quale settore occorre cercare l’eredità di coloro che un giorno hanno intuito le indescrivibili emozioni che può offrire il rock, portato alle estreme conseguenze in fatto di volume, pesantezza e distorsione.
Alla fine i The ‘Pack (così li chiamano i loro sparuti fans Americani...) fanno soltanto poche cose semplici, ma con tutta la dose di follia che è completamente scomparsa dal noioso ed iper-conformista heavy contemporaneo.
L’andamento sostenuto, quasi saltellante, di “Lil’ birdie” o della title-track che degrada in putridi lamenti psycho-sludge nello spazio di pochi intensi minuti, chiarisce meglio di mille parole se uno ha voglia di ascoltare.
Band di nicchia, qualcuno direbbe band da birreria, ma è proprio negli infimi e scassati locali, tra ubriachi, drogati, papponi e puttane, che si è fatta la storia della musica. I The Glasspack sono troppo sballati per scrivere pagine nuove, ma di gente così non possiamo farne a meno.
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