Sebbene i
Ministry non abbiano bisogno di presentazioni, dal momento che hanno contribuito ad inventare un genere (o quantomeno l’hanno portato alle masse) e autori di una perla come “
Psalm 69”, pare opportuno fare una premessa in relazione al nuovo album della band americana, il dodicesimo in studio.
Spesso la pietra di paragone dei nomi storici della musica è la loro storia, loro stessi. Pare evidente che questo modo di ragionare è fuorviante, in quanto pone un filtro al giudizio critico sulle nuove uscite, facendole passare necessariamente attraverso la lente di quanto già fatto che, in quanto tale, è passato, non tornerà più.
Detto questo, l’ascolto di “
Relapse” pone in evidenza una serie di considerazioni che vale la pena di approfondire.
La prima è anche la più banale, i
Ministry nel 2012 hanno già detto tutto, e sono lontani i tempi di “
Psalm 69”, ma anche quelli dei dischi precedenti. In buona sostanza qui non solo non si dice nulla di nuovo, ma sembra mancare una certa freschezza di fondo alle composizioni, sebbene queste appaiano come un perfetto esempio di industrial metal (ma sul merito delle canzoni rimando a fra poco).
La seconda considerazione è che, come spesso accade, quando una band inventa qualcosa genera una pletora di imitatori e, a lungo andare, finisce che gli allievi superino il maestro e quest’ultimo si trovi nella scomoda posizione di dover inseguire i propri epigoni. Oggi i
Ministry, nonostante gli sforzi di
Al Jourgensen, suonano come un misto tra
Rob Zombie,
Static X e
Marilyn Manson, senza però avere il groove del primo, la freschezza dei secondi e le strutture solide proprie della forma canzone del terzo. Il risultato è un platter che per gran parte si snoda lungo strutture molto veloci, martellanti, con melodie mediocri, banali, che vorrebbe suonare arrabbiato in pezzi come “
Weekend Warrior” e “
Freefall”, ma, invece, suona artificioso. Persino pezzi significativi, come “
Kleptocracy”, non convincono fino in fondo.
Prescindendo dal loro passato questo “
Relapse”, pur essendo un disco godibile, è un mero esercizio di stile, con beat silicei, chitarroni ribassati, voce robusta e poco altro. Un disco che dopo un paio di volte è pronto per il dimenticatoio.
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