Quando
Varg Vikernes, in arte
Burzum, rilascia un nuovo lavoro, il pubblico si divide in diverse fazioni.
Chi non vede l'ora di osannare l'album per il nome inciso sull'artwork, chi, per lo stesso motivo, non vede l'ora di infangarlo, chi invece è pronto a criticare l'uomo Varg per le sue azioni ed i suoi pensieri, chi ancora lo incensa anche per le sue idee, quelli che, semplicemente, ne apprezzano la musica, chi non la gradisce.
L'unica cosa certa rispetto ad ogni lavoro dell'artista norvegese è che non lascerà indifferenti.
"Umskiptar" non farà certamente eccezione a quanto detto poc'anzi e quindi ci aspettiamo un grosso dibattito intorno a quest'album che è il terzo, escludendo la raccolta
"From The Depths Of Darkness", dopo che il buon Varg ha ritrovato la libertà ed è anche un lavoro che segna un distacco dalle release che lo hanno immediatamente preceduto.
Vikernes ha scelto, infatti, di limare fortemente la componente black metal del suono ed ha optato per una musica cadenzata, epica, molto legata alla tradizione folk del suo paese, proponendosi come un cantore di antiche storie dimenticate nel tempo e schiacciate dalla modernità imperante.
Il percorso artistico scelto dal nostro ricorda molto da vicino quello intrapreso tanti anni fa da un altro personaggio del nord, schivo e misterioso, che risponde al nome di
Quorthon e non è un caso che
"Umskiptar" ricordi, molto più che in passato, l'opera di
Bathory, sebbene la personalità di
Burzum prorompa, come sempre, in maniera incontenibile.
Del resto
Varg Vikernes ha inventato l'ambient black metal ed il suo attuale desiderio di trasformarlo in una nuova forma espressiva è legittimo e testimonia la vitalità di un artista che non vuole adagiarsi sugli allori riproponendo le stesse soluzioni ogni volta.
"Umskiptar" è, andando nello specifico, un album
diverso.
Diverso dal tipico modus operandi di
Burzum, diverso perchè più maturo se a questo termine vogliamo associare la personalità di un uomo che oggi ha 40 anni e che per questo non può essere il ragazzo ribelle autore dei capolavori dei primi anni '90, diverso perchè i suoi brani si distaccano, non totalmente comunque, sia da
"Belus" che da
"Fallen", i dischi che lo hanno preceduto.
Vikernes sceglie di
cantare su questo album e lo fa attraverso una interpretazione calda, evocativa, fortemente immersa nel folklore della
"Völuspá", il poema norvegese da cui il disco è tratto, e di conseguenza nel paganesimo che, ad un'attenta analisi, è la caratteristica principale dell'album.
"Umskiptar" è infatti un lungo inno all'animo pagano del suo autore, una dichiarazione di amore per la sua terra, è quel tipo di disco da mettere su quando si è intorno ad un falò in un bosco, immersi nel cuore della natura, quando si cerca il distacco dalle banalità terrene.
Siamo di fronte ad un lavoro sentito, molto personale, direi intimo, al quale non manca, in ogni caso, un'anima nera che ancora giace negli intrecci dissonanti di chitarra ed in alcuni vocalizzi distorti che ne completano lo spettro espressivo.
"Umskiptar" non è scevro da imperfezioni. Inutile negarlo.
Alcuni brani sono troppo lunghi e poco incisivi e lasciano una sorta di amaro in bocca per quello che avrebbero potuto essere e che invece non sono.
Resta però la magia delle intuizioni melodiche di brani come
"Alfadanz" e
"Valgaldr" o l'incedere ipnotico della splendida
"Hit helga Tré" che da sole spazzano via il 90% delle uscite simili.
E resta il fatto che
Burzum ci abbia voluto regalare un disco che può benissimo essere etichettato come folk/viking piuttosto che black metal come l'evocativa e dolce
"Gullaldr", una sorta di preghiera, sta a testimoniare in modo vivido e profondo insieme con gli altri brani che completano un quadro antico in cui è l'epicità il "colore" ricorrente.
"Umskiptar" può diventare l'inizio di una nuova vita per
Burzum, può essere il primo passo verso il puro folk, o può significare la morte del progetto.
Difficile essere certi di una cosa o dell'altra.
Sicuramente è un album da avere, ascoltare, cercare di capire ed amare.
O, in alternativa, odiare.