Rimanere coerenti senza riciclarsi e magari offrire al contempo un segno tangibile di un ancora vivace slancio creativo, rappresenta una sfida importante per ogni
alternative rock band forte di un prestigioso e rigoglioso
curriculum vitae.
“A brief crack of light” tredicesimo tassello della carriera ultraventennale dei
Therapy?, in quest’ottica, si può tranquillamente considerare una considerevole vittoria, la dimostrazione concreta che la solidità dei principi artistici del gruppo non è mai stata in discussione, che la sua vocazione melodica è salda (anche se certamente meno
esplicita del periodo di maggior successo dei nordirlandesi) e che la voglia di “sperimentare” nuove sfumature espressive non si è esaurita, nemmeno in un momento storico dove un certo recupero spesso acritico del passato è diventato una consuetudine.
Del resto, “attingere” da tanti generi, senza scadere in superficialità e conservando un’invidiabile omogeneità espressiva e d’intenti è sempre stata una delle migliori doti dei Therapy? ed ecco che questo “
fuggevole spiraglio di luce” (un titolo mutuato dallo scrittore russo Vladimir Nabokov, che così descriveva l’esistenza, collocandola tra “
due eternità fatte di tenebre”) sono certo che conquisterà i fedelissimi della band, che in esso ritroveranno l’asprezza e l’urgenza degli esordi combinata con una “maturità” e con un’adeguata attenzione anche per le ultime tendenze sonore che potrebbe finire per piacere pure ai
rockofili meno avvezzi al verbo della “
Terapia con il punto di domanda”.
Sfido chiunque abbia un minimo di conoscenza della scena
alternativa anni novanta a non individuare immediatamente gli autori di “Living in the shadow of the terrible thing” anche nelle aleatorie condizioni di un distratto ascolto radiofonico (un augurio …), laddove qualche difficoltà in più la potrebbe serbare “Plague bell”, che aggiunge alla questione familiari rasoiate di marca Helmet, ma anche una certa enfasi Rollins-
iana leggermente meno consueta.
Sicuramente più “singolare”, poi, appare “Marlow” una spigliata e bizzarra dissertazione tra Sigur Ros, Big Country e New Order, omaggiati, questi ultimi, forse, per rispettare una sorta di “continuità” con i prediletti Joy Division (dei quali, forse è bene ricordarlo, gli autori di “Blue monday” incarnano la “catartica” propaggine artistica del dopo Ian Curtis, tra
synth-pop e
disco dance d’autore) già celebrati ai tempi di “Troublegum” (con l’immortale “Isolation”) e qui, in qualche modo, rievocati nella conturbante “Ghost trio”.
Il ricorso agli storicamente apprezzati riferimenti
new-wave (un genere tornato prepotentemente in auge nei tempi recenti, tra l’altro …) è rilevabile altresì nella affabilmente ossessiva “Before you, with you, after you”, dove affiorano bagliori di Killing Joke e PIL, mentre “The buzzing” si affida ad una pura furia
noise, “Get your dead hand off my shoulder” magnetizza i sensi con dosi mirate di pulsante
dub e
humour nero e lo spigoloso “Stark raving sane” è un altro di quegli episodi che faranno certamente piacere a chi segue questa bella “storia” dagli albori marcati Wiiija.
Il programma riserva ancora due piccole “sorprese”: “Why turbulence”, vibrante applicazione del
Therapy? sound al
groove terremotante dello
stoner e “Ecclesiastes” desolante e contemplativa conclusione elettronica (con tanto di
vocoder e un gusto vagamente
trip-hop) ad un lavoro fantasioso, acuto, intenso, eterogeneo, potente, emozionante … insomma, un nuovo bel disco di un gruppo che, in fondo, non ha mai deluso chi nella musica cerca proprio tutte le qualità appena descritte … e questo che si tratti di “grande pubblico” o di un numero maggiormente “selezionato” di ascoltatori.