La potenza è nulla senza controllo.
E nel caso di
Jeff Loomis, potenza e controllo coesistono che è un piacere, assieme ad altre 3 o 4 qualità che fanno del biondo americano uno dei migliori chitarristi, se non il migliore, della scena metal mondiale odierna.
E "
Plains of Oblivion" è la sua seconda fatica da solista, la prima dopo il sofferto abbandono ai
Nevermore dello scorso anno, coinciso con insanabili divergente musicali e non con il frontman della band, Warrel Dane. E se il precedente "
Zero Order Phase" aveva mostrato ai pochi che non lo conoscessero già le doti compositive del buon Jeff, "Plains of Oblivion" alza ancor di più l'asticella.
Per onor di cronaca bisogna dire che i riff e gli assoli di Loomis erano una componente massiva del sound dei Nevermore, cosa peraltro riscontrabile in ognuna delle 10 tracce che compongono questo disco, fattore che mette un grosso punto di domanda sul futuro della band di Seattle.
Ma qui si parla di Loomis, delle sua chitarra e delle sue canzoni. Splendide, coinvolgenti, dalla prima all'ultima nota, anche per chi magari, come il sottoscritto, non è un un tecnico delle sei o sette corde ma un mero ascoltatore avido di buona musica. E qui, amici miei, ce n'è a bizzeffe.
Fin dalle prime note di "
Mercurial" è infatti ben chiaro il tiro che prenderà il disco, grazie alla succitata abilità di Loomis e grazie anche ai numerosi e preziosi innesti che Jeff riesce alternativamente a schierare al suo fianco, oltre alle presenze fisse di
Dirk Verbeuren dei Soilwork alla batteria e di
Shane Lentz al basso. L'ex-Nevermore ha infatti deciso di cambiare compagni rispetto al suo disco d'esordio, limitandosi tra l'altro alla sola chitarra, a differenza di "Zero Order Phase" su cui si era occupato anche del basso.
E proprio nell'opener facciamo la conoscenza del primo ospite del disco,
Marty Friedman dei Megadeth, che accompagna Loomis lungo tutta la durata della canzone, esibendosi poi in un breve assolo finale. Stesso iter per
Tony McAlpine sulla successiva "
The Ultimatum", forse la miglior canzone del disco, anche se l'assolo del celebre chitarrista risulta un po' sottotono rispetto alla prestazione dello stesso Loomis.
Neanche il tempo di apprezzare la velocissima (manco a dirlo) e solitaria "
Escape Velocity" che "
Tragedy and Harmony" ci mette di fronte alla prima ospitata vocale di "Plains of Oblivion", nelle vesti di
Christine Rhoades, cantante americana che già vanta nel suo curriculum diverse partecipazioni sui dischi dei Nevermore, che qui ci regala un paio di ottime prove, utili a smorzare i toni tecnicamente cupi del disco, in particolare nella piacevole ballad "
Chosen Time".
L'ascolto procede quindi con "
Requiem for the Living" e "
Continuum Drift", nelle quali possiamo apprezzare rispettivamente l'apporto dell'ex-Megadeth
Chris Poland e del magiaro
Attila Vörös, già turnista coi Nevermore e con Warrel Dane.
Arriviamo quindi all'altra perla del disco, "
Surrender", nella quale sua maestà
Ihsahn, indimenticato mastermind degli Emperor, mette a disposizione la sua ugola in quella che si rivela una delle canzoni più oscure e malinconiche mai scritte da Loomis.
Chiudono quindi il decalogo musicale l'acustica (ebbene si) "
Rapture" e "
Sibylline Origin", riguardo alle quali è ormai quasi noioso sprecare sperticate lodi.
Loomis è un maestro, un chitarrista fenomenale e un compositore coi fiocchi, che non può e non deve assolutamente rimanere fermo ai box per troppo tempo. Che la sua maestria venga presto messa a disposizione di un gruppo vero e proprio, perchè un talento del genere non può assolutamente limitarsi a dischi da guitar hero, pur di valore eccelso come questo.
E mai come in questo caso è adatto chiudere con..
Quoth the Raven, Nevermore..