Il 26 Aprile del 1986 mancava un mese al mio ottavo compleanno, ricordo nitidamente quel giorno, erano le 8 di sera, mia madre stava preparando la cena e io le facevo compagnia in cucina, giocando con i soldatini, la mia grande passione. Ero impegnato in una furiosa battaglia USA contro URSS, nella quale avrebbero vinto, come al solito, gli americani. All’epoca la propaganda occidentale (anche di film come “Rocky 4”) dipingeva quello sovietico come un mostro disumano. Erano gli anni ’80, eravamo in piena guerra fredda. Ebbene, alle 8 di sera il tg (quello sì che poteva definirsi tale!) aprì con le immagini del disastro di
Chernobyl. Il clima cupo e disperato di quell’annuncio, le immagini di un reattore fumante fecero una brutta impressione al bambino che ero. Smisi subito di giocare ai soldatini, con un senso di oppressione, ansia e disgusto. Ebbi un trauma. Quella fu l’ultima volta in cui gli americani sconfissero i sovietici, e da quel momento i soldatini yankee non avrebbero più sconfitto i pellerossa. Quel giorno fu piantato in me un seme che, in base a non so quale perverso meccanismo freudiano, mi avrebbe portato, negli anni successivi, a rimpiangere la guerra fredda, l’URSS e tutto ciò che riguardava quel periodo. Ho un interesse maniacale per
Chernobyl,
Prypiat, la guerra fredda, i reattori nucleari, le radiazioni. Sono un perfetto figlio dell’era atomica.
Il 26 Aprile del 1986 un gruppo di ragazzotti ucraini viveva quella tragedia in prima persona e dopo 26 lunghi anni dava vita a “
Morok”, il disco col quale rielaborano quel trauma.
Gli
Agruss sono definiti dalla label, la sempre ottima
Code666, come Post Atomic Black Metal. Troppo facile etichettarli così’ e persino troppo facile ritrovare, nei solchi del disco, le coordinate stilistiche del suono che, partendo da una solida base black metal, si lascia contaminare dal death metal, dal postcore, con innesti a metà tra l’industrial e la musica ambient.
“
Damnation” è il grido disperato di una terra dannata, condannata dall’opera dell'uomo alla desolazione perpetua. La successiva title-track è blackened death metal nel quale l’alternanza tra screaming e growling annega in un maelstrom, della durata di 8 minuti, nel quale le chitarre creano un muro sonoro denso e compatto sul quale riverberano oscure dissonanze.
“
Punishment For All” è furia brutal death metal la cui anima è nera come la pece, e lo stesso si può dire della successiva “
Fire, The Savior From The Plague”.
“
Ashes Of The Future” è nera e apocalittica depressione, dal mood quasi funeral doom, che poi esplode selvaggia nel fragore dell’ugola acida dello screamer fino al rutilante finale.
“
Where The Angels Fall” è una ulteriore discesa nel profondo della disperazione di una terra desolata, spazzata solo da un gelido e venefico vento radioattivo.
Il finale è riservato alle tre parti di “
Under The Snow”, che da sole rappresentano 28 dei 67 minuti complessivi del disco.
La prima parte sembra avere accenni al folklore locale, ma è anche quella più vicina al black metal, se si eccettuano le dissonanze e il growling. Lo svolgimento della canzone ha un che di progressivo e le chitarre sembrano avvicinarsi allo shoegaze.
La seconda parte è più cupa e brutale, più minacciosa, più disperata nelle sue ritmiche compresse, nelle sfuriate di chitarra, con un finale mastodontico.
La terza e ultima parte è l’apocalisse nucleare, è il racconto intriso di malinconia e disperazione della morte di una terra, è la grigia atmosfera di una giornata dal cielo plumbeo. Tra noise, industrial, ambient rituale, gli
Agruss disegnano una natura morta, a tinte fosche, contaminata da massicce dosi di radiazioni ionizzanti, misurate con termini strani e dal suono terrificante come
Röntgen o
Sievert. Un vero monolite di depressione.
Questo disco non inventa nulla, in ambito black metal contaminato c’è chi sa fare di più e meglio, ma il dolore viscerale, la reale depressione, la disumana disperazione che questo disco trasmette sono in pochi a poterlo vantare. Sullo sfondo c’è l’annichilente sagoma del reattore numero 4, col suo ormai fuso e incandescente nocciolo pulsante, con i grigi muri di cemento che si sfaldano lasciando fuoriuscire stronzio, cesio, plutonio, vero monumento alla decadenza umana, a tutto quanto c’è di corrotto e corruttibile nella civiltà industriale, delle cui scorie fanno le spese una moltitudine di esseri umani senza volto, senza storia e senza futuro.