Sono ambiziosi, i
Freedom Slaves. Il loro
metal-prog prende avvio dai maestri incontrastati del genere Fates Warning, Queensryche e Dream Theater (nella loro
early version, soprattutto), ma, pur rimanendo all’interno dei confini di settore, tenta di allargare lo spettro delle influenze, finendo per ricordare pure formazioni meno famose e non per questo poco creative e significative come Enchant, Sieges Even e Deadsoul Tribe, senza dimenticare di aggiungere all’impasto compositivo un suggestivo tocco orientaleggiante non lontano da Myrath e Orphaned Land.
In questo modo i sentieri del metallo progressivo così tanto “battuti” e frequentati possono rappresentare ancora un’occasione di “esplorazione”, se non altro di tipo
sensoriale, dacché dal punto di visto stilistico tutto (o quasi) sembra già stato detto.
Concentrarsi sul
songwriting, forti di notevoli abilità tecniche, appare, dunque, l’arma vincente del gruppo nostrano, il quale, però, non ha ancora raggiunto una fluidità e un equilibrio nella scrittura tali da considerare concluso quel processo di maturazione che potrebbe consentirgli di lasciare un segno importante in un universo tanto inflazionato.
E poi c’è la voce di Daniel Marco Celotti a costituire una piccola incognita nell’economia generale della band: certamente espressivo e favorito da buone doti interpretative, il
vocalist dovrebbe gestire meglio le emissioni della sua laringe, a volte davvero un po’ troppo imprecise e sbilanciate, forse proprio a causa di un eccesso di “confidenza” nelle proprie qualità.
Detto ciò, il disco si dipana all’interno di un programma piuttosto variegato, dove tecnica strumentale, melodia, tensione e fantasia s’intersecano in maniera tutt’altro che approssimativa, regalando momenti assai appaganti (“Ashes of today, “A life”, l’inquietante e quasi Tool-
iana "Four days” e la mia personale
best in class, “Today will never say”), altri parecchio piacevoli (“The prophet”, “Pain 04” e la granitica e volubile “Say goodbye”) e solo un paio di situazioni complessivamente abbastanza trascurabili.
“Freedom slaves” è un lavoro parecchio interessante, caratterizzato da quel tipo d’imperfezioni che non preoccupano eccessivamente, proprio perché controbilanciate da tante indicazioni favorevoli, non ultima una notevole intelligenza nel trattare una materia divenuta, per la sua enorme diffusione, veramente “scabrosa”.
Attendiamo con fiducia il salto di qualità “definitivo”.
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