Questa band di Los Angeles è composta da veterani dello sludge, filone che può essere descritto come mistura di doom metal, stoner rock, hardcore, immersa in atmosfere depressive e pessimistiche. I
Sixteen hanno cominciato nei primi anni ’90 e sono tuttora in circolazione, con il loro sound abrasivo e rabbioso, lento e massiccio, ma ricco di un groove spesso assente in altre formazioni del genere.
L’ultimo album era stato “Bridges to burn” del 2009, ora esce il nuovo capitolo della discografia degli americani. I fans non debbono preoccuparsi, perché nulla è cambiato da allora. Tutto si basa ancora sulle vocals incazzate di Jerue, sulla chitarra ribassata e sferragliante, sui tempi slow e cadenzati di basso e batteria, in aggiunta all’attitudine rissosa e casinista che ci parla di droga, alcool, periferie degradate e gruppi di panciuti bikers fuorilegge.
Il disco è perfetto per chi ascolta nomi come Crowbar, Bongzilla, Sourvein, Weedeater, Hull e compagnia, che magari non brilleranno per fantasia e originalità ma in fatto di pesantezza non sono secondi a nessuno.
I californiani conoscono bene gli ingredienti dello sludge e soprattutto possono contare sulla propria coerenza musicale: onesta, pura ed incrollabile. I brani si susseguono come altrettanti colpi di maglio, con rabbia ed intensità fino alla fine. Come prevedibile non sono previste grandi variazioni, inutile aspettarsi ballate acustiche o adrenalinico thrash, ma le trame risultano ben distinte e non c’è la sensazione di ascoltare sempre la stessa canzone. Perlomeno per coloro che possiedono una minima conoscenza di questo genere piuttosto ostico ed impenetrabile.
Per qualità, bravura ed esperienza, i Sixteen si confermano uno dei migliori esponenti della scena, ed il loro stile nervoso e muscolare non è affatto ottuso come i detrattori del filone vorrebbero far credere.
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