Mi rendo conto che non è un atteggiamento molto “professionale” affidarsi alle iperboli contenute nei
flier promozionali forniti dalle etichette discografiche, ma è inevitabile incuriosirsi quando uno dei suddetti “bugiardini” si conclude con un proclama di questo tipo: “
One of the best rock albums in 2012 – guaranteed!”. Al di là di ogni forma di simpatico espediente necessario ad attirare l’attenzione in un mercato ipersaturo come quello attuale, per esporsi a prospettare una
garanzia del genere bisogna avere, innanzi tutto, una grande stima nei mezzi dei propri “protetti”, in una misura tale da poter affrontare le aspettative certamente importanti di un “critico” o di un ascoltatore che si trovi al cospetto di una “sparata” simile.
Ebbene, evidentemente il
team Liljegren Records / Doolittle Group deve confidare molto nelle doti dei
Diamondog, e anche se non si tratta di una fiducia “cieca” (il disco in questione è in realtà una riedizione arricchita del precedente “Kill me” e il gruppo ha all’attivo altri due
full-length e un
Ep, tutti piuttosto apprezzati), c’è di che sorprendersi di tanto smodato entusiasmo.
Che dire … a questo punto l’impegno si dovrà necessariamente esplicare nel tentare di rispondere alla
manzoniana domanda retorica “
fu vera gloria?” e le prime impressioni sembrano identificare la band norvegese come una creatura capace, attenta alle esigenze di mercato e molto
scaltra, in grado di fornire una gamma piuttosto ampia e variegata di formulazioni espressive atte a lusingare l’astante.
Adrenalinici nei pezzi più
hard (“Like a diamond” tra Motorhead e Danko Jones, la pulsante “No other”), affabili quando serve un approccio maggiormente
radiofonico, equamente distribuito tra lampi
corporate-punk (l’Offspring-
iana "Let the fight begin”), scorie
post-grunge (“Lost in tranquility”, “Let it show” e “If”, un po’ alla Foo Fighters, "This is a love song”, con barlumi di Alice In Chains e King’s X), ombre di vibrante tensione
alternative (“Kill me”, "Hurt”, la brillante “Soak it in”, “Let it show”, con qualcosa dei Saigon Kick e l’immancabile ballata “Don't you die”, che, non so bene perché, mi ha vagamente ricordato, ehm, i Negramaro … forse ho bisogno di una
pausa …), i nostri offrono un bel campionario di sagacia interpretativa, coinvolgente e competente, ma alla lunga forse un po’ troppo effimera ed epidermica nelle sue palesi intenzioni di “cerchiobottismo” artistico.
Personalmente, ed è l’unica certezza che mi sento di concedere a questa disamina, pur rilevando una buona qualità complessiva e le potenzialità “giuste” per un apprezzamento esteso e gratificante, non credo proprio che consegnerò “Faithful unto death” alla mia
esclusivissima playlist di fine anno.
Riusciranno i Diamondog a conquistare quelle relative a vendite e
downloading (ufficiale, ovviamente), ben più
vitali e significative? Per tale quesito, non resta che affidarsi nuovamente alle immortali parole del poeta … “
ai posteri l'ardua sentenza” … sono bravi, intelligenti e
furbetti, però …
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